In un recente seminario dedicato ai sessant’anni della scuola media unica dal titolo “1962-2022. 60 anni di scuola media per tutti e di ciascuno. Bilanci e rilancio di prospettiva” una delle relatrici, la professoressa Evelina Scaglia dell’Università di Bergamo, cercando di fare un bilancio, finalizzato a verificare se l’istanza originaria per cui è nata la scuola media unica si sia realmente attuata, hai evidenziato come il bilancio non possa essere molto felice, fatta eccezione per l’esperienza della scuola di Barbiana.
Solo don Milani avrebbe realizzato in modo compiuto, a detta della relatrice, l’intento originario da cui ha preso avvio la scuola media unica.
Scaglia ha continuato precisando che il cuore del genio educativo di don Milani non sarebbe da rintracciare in un romanticismo dialettico, né nello spirito rivoluzionario del Sessantotto, quanto in una visione antropologica a lui familiare: quella della paideia del primo cristianesimo, per cui l’educazione è finalizzata alla promozione integrale della persona all’interno di una uguaglianza sostanziale.
La promozione dell’integralità della persona sarebbe dunque la condizione per la realizzazione di quell’ascensore sociale che conduce al superamento delle differenze originarie, in termini di opportunità e di occasioni, tra i figli dei contadini e i figli dei professionisti.
Si tratta di una riflessione molto interessante, che estende il suo valore ben oltre la scuola secondaria di primo grado, o scuola media come veniva chiamata ai tempi di don Milani, e che potrebbe essere estesa a ogni ordine scolastico.
Ma che cosa si intende per integralità della persona? Quali sono i tratti salienti dell’identità umana? Come conoscerli, farli emergere e crescere a scuola?
Sono domande interessanti per ogni generazione, ma forse lo sono ancor di più in un momento storico in cui l’interrogativo sulle caratteristiche proprie dell’umano diventa più urgente, per rispondere alle sfide che la tecnologia e in particolare l’intelligenza artificiale pongono alla nostra società e al mondo della scuola.
L’espressione “intelligenza artificiale” forse è di per sé un ossimoro, perché l’intelligenza dovrebbe essere il proprium dell’umano, mentre l’artificiale lo è della macchina.
Ma questa affermazione acquista valore e evidenza solo all’interno di una concezione antropologica, di una domanda continua sul proprium dell’essere uomini e donne all’interno del mondo.
In che cosa l’essere umano differisce dagli altri organismi viventi?
Lo ricorda in un suo recente articolo sul Foglio Costantino Esposito: “Si tratta piuttosto di capire se l’artificiale (ossia la simulazione dell’umano) riesce a soddisfare tutta l’attesa e il desiderio di sapere degli umani circa sé stessi e il mondo, semplicemente programmandoli, o se resta una differenza tra i due: cioè se l’intelligenza naturale rimanga come origine di quella artificiale (come di fatto, storicamente è stato), o se quest’ultima può creare finalmente il suo creatore”.
Sembrerebbe di poter dire che il proprium dell’essere umano è identificabile in un desiderio di sapere che è difficilmente colmabile, desiderio che sfida la ragione in un’avventura continua, perché non si accontenta di risposte standardizzate.
La scuola è dunque chiamata ed essere una palestra di domande vere, una sinergia tra gli interrogativi degli studenti e i tentativi di risposta che i grandi del passato hanno ipotizzato.
I ragazzi, in un contesto storico in cui tanto si parla della loro fragilità, hanno bisogno di incontrare una cultura viva, che rifugga dalla ripetizione di nozioni e che sappia intercettare le loro esigenze.
A qualcuno questo discorso potrebbe sembrare un accomodamento, una semplificazione, una rinuncia al compito istituzionale della scuola, anche come richiesta di impegno determinato. In realtà si intende suggerire l’esatto contrario, si tratta infatti di favorire la chiamata a compiti alti, che sfidino l’intelligenza alla ricerca continua, a non accontentarsi delle risposte immediate, allo sviluppo di un vero spirito critico, che non si inchini davanti alla prima ipotesi offerta dal pensiero dominante dell’algoritmo della moda del momento.
La scuola deve essere il luogo dove gli studenti possono incontrare la realtà nella sua totalità. Le mura degli edifici scolastici non possono essere un argine, una difesa all’irrompere del reale che si manifesta nella sua bellezza, ma anche nella sua drammaticità e, a volte, contraddittorietà.
Ricorda ancora Esposito, nell’articolo citato, che tutto il dibattito sull’intelligenza artificiale ha come posta in gioco la risposta alla domanda: che cos’è la realtà.
“Solo che questa volta bisogna invertire il gioco del chatbot, pronto a darci tutte le risposte che vogliamo, perché siamo noi a dover rispondere a quell’interrogativo. (…) Ogni risposta che il chatbot può darci si rovescia in un interrogativo, poiché chiede a noi – e può chiederlo solo a noi – di capirla e di utilizzarla. Ogni dato, evento, situazione, ogni problema dell’esperienza, cioè dell’esistenza del singolo e del mondo intero, chiede infatti a noi di dargli un senso. È questa competenza del senso ciò che rende solo noi umani e che rende solo ‘artificiale’ l’algoritmo, ma scopre come ‘reale’ il mondo”.
Quanto spazio ha la ricerca del senso nelle nostre scuole? Quanto la ripetizione di una procedura tende invece a soffocare gli interrogativi propri di ogni esistenza umana?
La domanda sul senso alberga come irrinunciabile solo all’interno di una precisa visione antropologica per cui l’uomo non è ridotto a un elemento indistinto della natura, ma al contrario è il “luogo” dove la natura acquista coscienza del suo esserci.
Ma perché dovrebbe essere così importante interrogarsi sulla concezione antropologica che sottende le scelte di una scuola? Semplicemente perché quando la meta di un cammino non è chiara anche le sue tappe rischiano di essere fallaci o disorientanti.
L’orizzonte antropologico da cui ha preso avvio don Milani per l’esperienza di Barbiana può essere esemplare per comprendere alcuni aspetti essenziali del fare scuola.
Se la meta è la promozione integrale della persona, dotata di ragione e di libertà, all’interno dei curricoli della scuola per esempio non potrà essere ignorato l’orizzonte del senso di cui si diceva sopra, sarà necessario quindi identificare i nuclei fondanti delle discipline e il loro valore formativo rispetto alle competenze di cui sono supporto ineliminabile.
Nella stessa direzione si potrà coltivare una vera interdisciplinarietà, intesa non come giustapposizione di nozioni, ma come capacità di superare l’eccessiva parcellizzazione delle discipline, a favore di un sapere argomentato che ha come orizzonte la conoscenza della realtà nelle sue diverse manifestazioni, di cui le discipline sono punti di vista non esaustivi.
Una pedagogia improntata alla promozione integrale della persona è per sua natura inclusiva: promuove le caratteristiche di ciascuno, senza tralasciare né chi si deve confrontare con particolari fragilità, né chi ha necessità di rispondere a spiccati talenti.
Un’antropologia che ha a cuore la promozione di ragione e libertà è per sua natura sociale e solidale, è quindi capace di riconoscere il valore della collegialità tra gli adulti e del sapere sociale tra gli studenti, rifuggendo da tentazioni narcisistiche e da eccessive richieste prestazionali, soprattutto quando sono poco rispettose della singolarità di ciascuno.
Daniela Lucangeli, nel suo recente libro Il tempo del Noi (Mondadori, 2022), riporta quanto segue: “Spesso gli amici mi chiedono come faccio a fare scuola…. Sbagliano la domanda” ha scritto don Milani. “Non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare scuola, ma solo di come bisogna essere per poter fare scuola”.
La domanda sull’essere, sul proprium dell’umano è la grande risorsa che la scuola ha a disposizione per incontrare la realtà nella sua totalità.
Si tratta di una sfida irrinunciabile per consegnare alle generazioni future le risorse per vivere consapevolmente le sfide tecnologiche, nell’esercizio e nel rispetto della libertà di ciascuno.
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