Cominciò tutto a Casalecchio di Reno, vicino a Bologna, nella tarda mattinata del 23 novembre 1993. Silvio Berlusconi aveva appena inaugurato un suo nuovo supermercato (che allora si chiamava Euromercato, ora è un Carrefour) e una giornalista della sede Ansa di Bologna, Marisa Ostonali, lo intervistò: “Cavaliere, se lei votasse a Roma chi sceglierebbe tra Rutelli e Fini?” E Berlusconi: “Io credo che la risposta lei la conosca già. Certamente per Gianfranco Fini”.
Una deflagrazione, una bomba. Due giorni prima Fini – complice una Dc romana spappolata e dissanguata tra scandali e liti interne – praticamente da solo aveva preso al primo turno delle elezioni comunali 617mila voti contro i 687mila del candidato della sinistra, Francesco Rutelli, andando al ballottaggio. Erano le prime elezioni che prevedevano l’elezione diretta del sindaco e con quella risposta Berlusconi scelse chiaramente una delle due sponde, ma quella che fino a un minuto prima era considerata “la parte sbagliata”.
Da qualche mese si vociferava di una sua possibile “discesa in campo”, ma nessuno aveva ancora capito “il se e il come”, visto che Berlusconi sembrava strettamente ancorato a quel centro-sinistra rappresentato dal Psi di Bettino Craxi, un partito socialista sommerso dai marosi della tempesta di “Mani pulite”.
Certo pochi avrebbero scommesso su un Berlusconi a fianco di una destra non ancora sdoganata e che allora era rappresentata soltanto dal reietto Movimento sociale italiano-Destra nazionale (Msi-Dn), roba da 5% o poco meno. Un partito emarginato che Fini aveva ripreso in mano solo pochi mesi prima dopo la parentesi di Pino Rauti e quasi per scherzo si era candidato a Roma in una “missione impossibile”.
Ma c’era nell’aria una grande novità che Berlusconi aveva colto prima degli altri: con la nuova legge elettorale maggioritaria tutti i voti sarebbero stati utili e buona parte del centro ex Dc non avrebbe votato per gli ex comunisti.
La “bomba” fu potente: in un secondo Berlusconi rovesciava gli schemi, legittimava un personaggio in crescita (l’allora giovane Fini piaceva come volto nuovo, con picchi di audience in tv) ma facendo crollare quell’“arco costituzionale” che aveva emarginato per cinquant’anni la destra dalla politica italiana. Alla fine a Roma vinse Rutelli, ma il delfino di Giorgio Almirante conquistò il 47% dei voti.
Partì l’avventura: in poche settimane Silvio Berlusconi fondò Forza Italia, con tutte le caratteristiche di un “partito-azienda” e dove i primi quadri furono i suoi manager di Publitalia. Slogan, musichette, inni, minigonne e gadget all’americana, mentre nel frattempo Fini trasformava il Msi in Alleanza nazionale e in poche settimane, complice il finissimo mediatore di Fini Pinuccio Tatarella, l’alleanza Fini-Berlusconi si concretizzò alle elezioni politiche del ’94 con una formula inedita: un’alleanza variabile che vedeva insieme Forza Italia e Lega Nord nei collegi dell’Italia settentrionale, mentre FI e Alleanza nazionale erano invece unite nel Centro-Sud.
Il 27 e 28 marzo la “gioiosa macchina da guerra” dell’allora leader del Pds Achille Occhetto (data per sicura vincente) finì fuori strada, il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro sfiorò l’infarto mentre Berlusconi vinceva alla grande conquistando Palazzo Chigi: era cominciata la “seconda repubblica”. Fini piazzò quattro ministri, ma di fatto iniziò un duello con momenti di autentica condivisione alternati a finti sorrisi e coltellate sottobanco.
“Non dura” si diceva dalle parti di An pensando al Cavaliere; e invece non solo Berlusconi durò, ma – quando Bossi piantò in asso la maggioranza – alle elezioni del ’96 FI surclassò nuovamente Alleanza nazionale che, più strutturata, pensava che il partito di plastica del Cavaliere si frantumasse. Il partito-azienda invece si consolidò, e tra alti e bassi continuò una lunga sopportazione reciproca dove il Cavaliere, con i suoi colpi di scena, squinternava regolarmente gli accordi e gli scenari concordati, con un Fini sempre costretto alla rincorsa.
Un esempio clamoroso fu dieci anni dopo, quando la sera del 18 novembre 2007, da una portiera semiaperta di un’auto in pieno centro a Milano, in quello che verrà ricordato come l’improvvisato “discorso del predellino”, Berlusconi annunciò di fatto la “fusione” di FI con An nel “Popolo della Libertà”.
Non era vero (quasi) niente, ma a quel punto non si poteva fare altro che confermarlo e fu l’inizio tribolato di un partito mai nato, tra aperti dissidi ai vertici come alla base. Una tensione che divenne pubblica il 22 aprile 2010 quando Fini (allora presidente della Camera) interruppe il Cavaliere che si stava scagliando troppo veemente contro le “toghe rosse” difendendo i magistrati.
Girarono parole grosse davanti alle telecamere, fino al famoso “Che fai, mi cacci?” di Fini che poi se ne andò davvero dal Pdl con un gruppo di 33 deputati e 10 senatori fondando “Futuro e Libertà”, partito che guardava al centro ma ebbe una vita meno che effimera.
Un’incompatibilità personale tra Silvio e Gianfranco che pesò più del dato politico: Fini non accettava i modi da padrone di casa di Berlusconi e quest’ultimo mal sopportava il ruolo da protagonista del primo, spesso coccolato dai media in chiave antiberlusconiana.
Le vicende personali si legarono poi a quelle politiche, con Berlusconi che considerava quello di Fini un tradimento da figliol prodigo e Fini che accusava il Cavaliere per le campagne scandalistiche dei media berlusconiani, soprattutto sulla vendita di una casa a Montecarlo a favore del fratello della sua compagna, Elisabetta Tulliani.
Gianfranco Fini – per vent’anni delfino designato alla fine rimasto senza trono – uscì definitivamente di scena con la sconfitta elettorale del 2013, mentre Berlusconi tenne duro nonostante la “legge Severino”, gli alti e bassi di Forza Italia, le indagini delle procure, gli scandali e il correre degli anni. Ritornato al Senato l’anno scorso, fino all’ultimo ha voluto essere lui il protagonista, ma credo che Fini gli abbia concesso da tempo l’onore delle armi.
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