“Cari ragazzi”: potrebbe iniziare così un messaggio rivolto ai miei alunni maturandi. Ma come dovrebbe proseguire questo messaggio? Benché abbondino, in questi giorni, scritti o lettere o ammonimenti su social e quotidiani, non è semplice trovare parole vere da regalare ai miei ragazzi. In fondo, penso che ci sia del vero nelle parole opprimenti di certi prof che, già dall’inizio del triennio, tormentano i loro alunni con la visione minacciosa dell’esame di Stato.
Sì, in fondo c’è del vero, non nei metodi ma nel contenuto, perché quella prova è frutto di un percorso lungo, disteso, costante, che si svolge negli anni ed è per questo che sono un po’ vuote e inutili tutte le parole e i consigli del giorno prima: conta il percorso svolto, il viaggio compiuto, che soltanto nel raggiungimento della meta finale manifesta la sua verità e la sua efficacia. D’altra parte, è anche vera la percezione dei giorni dell’esame come di una partita a sé stante, un match nuovo, non del tutto prevedibile negli esiti e non del tutto definibile dagli antecedenti. Ed è proprio questo aspetto che continua a rendere interessante, emozionante, carico di aspettative, l’esame di Stato o di maturità, come si diceva un tempo, evidenziando la portata umana e personale di questo momento, unico rito rimasto a sancire formalmente l’ingresso nel mondo adulto.
Ecco, cari ragazzi, direi che il punto cruciale di questa incognita si concentra quasi totalmente nella prima prova. Infatti, se nella seconda prova sono richieste le conoscenze disciplinari e le competenze specifiche di indirizzo; se nel colloquio orale gran parte dei contenuti sono già noti (project work, tesina, approfondimenti); invece, della prima prova conosciamo la struttura (analisi del testo, testo argomentativo, tema d’attualità) ma non abbiamo idea del contenuto su cui dovrete scrivere, cosicché ogni anno, sui social o sui giornali o fra i corridoi degli istituti, impazzano le previsioni su quale autore uscirà o quale tematica detterà la traccia della tipologia C o quale saggista sarà citato nella tipologia B. Insomma, l’ansia della notte prima degli esami è sostanzialmente rivolta alla prova di italiano.
Allora, quali consigli dare, che non siano già stati dati durante l’anno o in queste ultime ore? Leggere con attenzione le tracce, argomentare con coesione e coerenza, motivare, documentare, contestualizzare adeguatamente le proprie affermazioni, programmare bene il tempo a disposizione, mantenere la calma, dormire almeno otto ore: tutto giustissimo, detto e ridetto, eppure sentiamo sempre che manca qualcosa, che quelle parole non definiscono tutto. In questa insoddisfazione sta il punto più vero da cui vorrei partire per dire ai miei ragazzi: godetevi l’incognita. Gustatevi l’imprevisto possibile.
Lasciatevi provocare dall’imponderabile. Accettate una partenza di cui non conoscete ancora l’approdo. Mettete in saccoccia le poche cose che possedete, pronti a scovarne altre che non sapevate di avere. Accogliete il rischio di non sapere cosa succederà, con tutto l’imbarazzo di non sentirsi pronti, ma con tutta la certezza del vostro esserci, lì in quel momento, in quell’ora, insostituibili. Siate voi stessi, vi sentite dire in questi giorni: sacrosanto consiglio, ma tanti di voi rischieranno di perdersi un po’ smarriti nel tentativo di codificare questo invito in spunti pratici.
Ecco, non pensate troppo astrattamente, rischiando di perdervi quanto sta accadendo: sgranate invece gli occhi e state lì come se non ci fosse un domani, pronti a cogliere la sfida, il guanto lanciato, la parola detta per sempre, su quel foglio bianco fra le vostre mani una volta e mai più. E nel raccogliere quel guanto, emergerà quel che voi siete, eromperà quel che avete dentro, si affermerà il vostro piglio originale. Senza pensarlo, ma scoprendolo come regalato da quel momento non deciso né programmato da voi. Cari ragazzi, il valore profondo di quel pugno di ore, nella mattina del prossimo 21 giugno, è profetico di quel che di meglio avverrà nelle vostre vite.
Accettare l’imprevisto dell’istante per guadagnare un pezzetto in più di voi stessi: questa è la promessa di ogni giorno, già contenuta in quel primo momento siffatto che state per vivere. Ci si prepara alla lotta, certo; si affilano le armi, sicuro; si progetta l’azione, ovvio: ma quando si scende in campo, domina qualcosa di misterioso e molto più grande, in cui tu stesso ti scoprirai molto più grande di quel che avresti mai pensato prima. A patto che tu accetti lo scorno, l’imbarazzo, del non sapere già tutto.
Per questo, per sostenere questo brivido, prima dell’agone, prima della prova, si vede volentieri chi si ama, o si sosta in memoria di qualcosa di bello, o si prega Dio, o si riguardano certe foto, o si fanno lunghe telefonate con gli amici: si cerca quel punto caldo, quel cuore infiammato che ci sostiene nella lotta. Lo stesso vale nella vita, sempre. “Quando si svegliava in mezzo ai boschi nel buio e nel freddo della notte allungava la mano per toccare il bambino che gli dormiva accanto”, scrive il grande McCarthy ne La strada.
Ecco, vi lascio con una domanda: chi è il vostro scudiero? Chi il vostro Samvise Gamgee? Chi vi dirà, sempre e comunque, “tu vali!”? A quale luogo tornerete nel pomeriggio del 21, andata com’è andata? Cari ragazzi, accettare il rischio e rispondere a questa domanda sono il tesoro per una prima prova memorabile e la profezia ineludibile di una vita che valga la pena vivere.
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