Il professor Gabriel Andreescu, nella prima parte di questa intervista, ci ha fornito il quadro politico culturale rumeno a partire dalla prima metà del XX secolo fino all’avvento di Nicolae Ceausescu e alla gestione tirannica del suo potere. Inizialmente sembrò che nemmeno il crollo del Muro di Berlino, il 9 novembre 1989, e il conseguente sgretolarsi dell’impero sovietico fossero riusciti a sgominare il regime e a togliere La Romania dal suo lungo isolamento. Eppure, la dittatura del Conducator aveva ormai le ore contate, tanto che ben presto anche nell’antica terra dei Daci soffiò il vento della rivoluzione.
A voler ripercorrere i passi insanguinati di quella tragedia, sarebbe necessario partire dai primi moti scoppiati a Timișoara tra il 14 e il 15 dicembre dell’89, ma in breve la rivolta dilagò in tutto il Paese fino a raggiungere Bucarest, la capitale. Ma neppure l’esecuzione di Ceaușescu e della moglie Helena, al termine di un processo sommario il giorno 22 di quello stesso mese, porrà fine al dramma rumeno. Dovettero passare degli anni prima che il Paese potesse finalmente trovare l’equilibrio e il respiro di una effettiva democrazia.
Interessante, al riguardo, la lettura del volume (oggi introvabile) di Paolo Rumiz, Danubio: storie di una nuova Europa (Studio Tesi, 1990). Scrive Rumiz nel saggio citato che Mihnea Berindei, il Václav Havel rumeno esule a Parigi, sosteneva che fosse impossibile in Romania un’azione collettiva, dopo quarant’anni di dissimulazione istituzionalizzata. Viene quindi da chiedersi se fu veramente una rivoluzione popolare quella esplosa nel Paese a dicembre del 1989 o se “la fiaba del tiranno malvagio abbattuto dal popolo buono, si sgretoli di fronte alla realtà delle congiure di palazzo, dei clan di potere, della gente usata come carne da cannone” (op.cit.).
Nelle parole di Andreescu, le due versioni sembrano quasi convivere nel dramma di un Paese lacerato dalla dittatura, prima, e negli anni del post-Ceaușescu da un clima che, almeno fino al 1996, continuò a minacciare la nascita di una Romania veramente libera e democratica. Il professore suggerisce un’indicazione di metodo davvero preziosa: è sempre una “storia particolare” a consentire la messa a fuoco dell’orizzonte globale: solo questo approccio, per la Romania come per qualunque altro Paese, ci permette di far prevalere non il pregiudizio, ma la curiosità; non l’ideologia, ma l’uso di una ragione aperta al Mistero.
Professore, che cosa ricorda di quei giorni così drammatici per la storia del suo Paese?
È difficile per me ricordare quei giorni! Fu una rivoluzione davvero sanguinosa. Ma va detto che contestualmente alle violenze e agli scontri nelle piazze della capitale, si verificarono anche molti e repentini cambiamenti: innanzitutto si diede vita a un Fronte di Salvezza Nazionale che si adoperasse a coordinare soggetti istituzionali già esistenti. Dal gennaio 1990 la Romania diventa, a pieno titolo, uno Stato democratico in conformità alle dichiarazioni formulate nei giorni immediatamente successivi alle rivolte. Era stata abbozzata una sorta di Costituzione “fondativa” del nuovo corso. La Securitate, che durante il regime aveva rappresentato lo strumento repressivo per eccellenza, venne dichiarata, almeno in apparenza, sciolta. Vennero riconosciuti i diritti e le libertà fondamentali, venne ripristinata la libertà di stampa e prese forma l’esperienza di un pluralismo politico.
Come si comportò la nuova leadership nei confronti di coloro che avevano appoggiato e collaborato con il regime?
Va chiarito che la riorganizzazione anche politica del Paese fu da subito in mano agli ex-comunisti e ai securisti: in quel contesto erano di fatto loro le sole persone in grado di controllare i poteri militari. Così la milizia assunse il nome di polizia e alla Securitate fu data la responsabilità dei Servizi rumeni di informazione. In quel momento, d’altra parte, non avrebbero potuto agire diversamente: nomenklatura e securisti temevano molto il popolo, che attribuiva loro il peso di tutte le sofferenze subite durante gli anni della dittatura: non potevano perciò figurare come gli uomini impegnati nel controllo della situazione. Si mossero così per garantire, prima di tutto a sé stessi, la possibilità di insediare una nuova realtà politica, un nuovo ordine: la chiamarono seconda ondata delle vecchie strutture comuniste.
Come venero trasformate le strutture del potere?
Vale la pena, a questo punto, citare qualche esempio: la Securitate di Bucarest, considerata la più importante della Romania, venne trasformata in una struttura di informazione. La sua ex direzione, impegnata a occuparsi di quanto avveniva all’estero, si trasformò in Servizio di Informazioni Estere: ad assumerne il comando (e questo dà la misura di quale fosse di fatto la “nuova” gestione del potere) fu una famosa spia comunista che in precedenza si era infiltrata anche nella Nato e aveva comunque svolto attività di spionaggio in Occidente. Gli ufficiali della Direzione Sesta della Securitate, mi riferisco alla direzione penale, la più dura, quella che aveva mandato la gente a morire e si era occupata dei dissidenti (lo stesso Andreescu era stato condannato a morte, riuscendo miracolosamente a scampare all’esecuzione, nda) furono nominati procuratori presso la Corte d’Appello militare generale in diverse sedi. Di esempi analoghi potrei farne molti altri. Il principale leader eletto nella struttura del Fronte di salvezza, Ion Iliescu, era lui pure un vecchio militante del Partito che aveva capeggiato i giovani comunisti ed era stato anche segretario del Partito in due diverse località del paese.
Ma in un quadro di questo tipo, era corretto parlare di “democrazia”?
Nonostante tutto, era finalmente possibile parlare di democrazia: quella forza cioè che, nel tempo, consente sempre di poter cambiare le cose. Tanto è vero che, già a partire dagli anni 90, maturò dovunque il desiderio di integrarsi all’Europa. La Romania adottò infatti nuove istituzioni e nuove norme: quelle cioè che l’hanno resa una democrazia a tutti gli effetti. È stato proprio questo percorso che le ha permesso, nel 2007, di entrare a far parte del Consiglio europeo. Va comunque precisato che il controllo quasi assoluto degli ex-raggruppamenti durò fino al 1996. Poi però, come in ogni democrazia che si rispetti, una costruttiva opposizione in Parlamento ottenne buoni risultati, grazie al pluralismo politico e alla solidarietà di buona parte della società civile. È stato questo sforzo umano così lungamente perseguito che, avendo “approfittato” delle libertà ottenute dopo la rivoluzione, è sfociato nella svolta decisiva del 1997, quando cioè la Romania prese le distanze dalle tendenze oligarchiche ancora presenti e fece il possibile per integrarsi nel contesto europeo. Nonostante ciò, esiste ancora oggi una forza che, fondando il proprio successo nell’ambito sia dell’economia che dell’informazione, tenta di falsificare il passato minando in qualche modo lo sviluppo democratico del Paese: non si può negare che la rivoluzione rumena fu un fenomeno storico, un atto straordinario di dignità nazionale, esito del sacrificio di tante persone. Il “palcoscenico” della Securitate continua tuttavia a sostenere che la rivoluzione fu il risultato dell’intervento di Mosca e di Budapest. Tale interpretazione domina ancora parecchi ambiti della società rumena.
Di quale interpretazione si tratta?
Chi appoggia questa ipotesi, sostiene che non fu la popolazione a sollevarsi contro Ceausescu e la Securitate! È fin troppo evidente che la Securitate non poteva allora, né tanto meno adesso, ammettere le proprie responsabilità: questo macchierebbe in qualche modo il suo onore. Secondo questa falsa lettura dei fatti, i veri responsabili della rivoluzione sarebbero individuabili nell’Ungheria e nei poteri moscoviti entrambi intervenuti per abbattere la dittatura di Ceaușescu. Non ci fu quindi una effettiva rivoluzione, ma furono tali forze a sobillare il popolo persuadendo alla rivolta. È questo il modo per sottrarre al popolo la dignità di essersi battuto per la propria libertà. Ma voglio portare un altro esempio: risale solo a due anni or sono la conclusione della requisitoria relativa proprio alla rivoluzione. L’indagine penale era finalizzata ad individuare i responsabili di quanti (e furono molti) rimasero uccisi negli scontri armati di quei giorni. La sentenza del Partito attribuì la responsabilità a tre persone: Ion Iliescu, Voican Voiculescu e un generale d’armata. Furono dunque costoro a essere incolpati di aver fomentato reciproche violenze tra militari e insorti. Ma chi aveva armato la popolazione che sparò contro l’esercito e perché l’esercito sparò sulla popolazione? Dico questo per sottolineare come una simile sentenza finì per ingannare tutti, compresa la popolazione. L’interpretazione risulta evidentemente assurda, ma il quartier generale l’ha fatta propria perché non venissero accusati gli ufficiali della Securitate per tutti i crimini che, all’epoca, avevano perpetrato.
Dopo tutte queste traversie, come si presenta oggi il Paese?
La Romania di oggi potremmo definirla una realtà complessa e oserei dire molto “strana”. Quello che colpisce è, in un certo senso, il paradosso che la abita: uno studio recente afferma per esempio che l’economia rumena è la diciannovesima economia mondiale. E allora perché, sarebbe legittimo chiedersi, mancano o risultano obsolete infrastrutture come reti stradali e ferroviarie: la Romania vanta il primato della più corta autostrada del mondo (230 chilometri in tutto). E tuttavia l’evoluzione della nostra società è dovuta al coinvolgimento di un gran numero di persone; a migliaia hanno protestato per mesi rivendicando diritti ed esigendo risposte. Diversamente, quindi, da come si potrebbe pensare, esiste una società civile abbastanza attiva: la nostra è una società che può considerarsi attiva e passiva al tempo stesso; fatalista ma allo stesso tempo reattiva. C’è senza dubbio un ritardo, rispetto all’Occidente, specie dal punto di vista della mentalità. Non si può d’altra parte negare una reale evoluzione. A proposito di diritti, per esempio, fino a qualche anno dopo la rivoluzione, l’omosessualità veniva punita con il carcere. Oggi c’è un’istituzione, Consiglio Nazionale per la discriminazione sessuale, che segue con estrema attenzione i casi relativi a tali problemi. È in atto, insomma, una reale evoluzione nel senso dei diritti e delle libertà fondamentali. Anche se non procediamo allo stesso ritmo dell’Europa occidentale, abbiamo però lo stesso sistema di diritti e di libertà.
Pesa ancora, nei confronti dei rumeni, un certo pregiudizio. Qual è, a suo parere, l’origine?
È un mondo, il nostro, molto complesso che non possiamo tuttavia etichettare. Esiste, è vero, un problema di atteggiamento nei confronti dei rumeni, ma questo avviene anche nei confronti di altre comunità. La gente utilizza frequentemente degli stereotipi: una sorta di “economia cognitiva”: si pensa applicando degli schemi, si ragiona semplicisticamente e non sempre si ha il tempo di elaborare. D’altra parte, non si può chiedere a chi manca di una preparazione adeguata che pensi il mondo nella sua complessità. Piuttosto va aiutata la gente a superare questa ignoranza. Sono i dettagli concreti ad essere i più rappresentativi. Guai a muoversi per categorie astratte. Come si dice: fatti non parole!
(Giulia Sponza)
(2 – fine)
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