Di fronte ai toni sempre più perentori usati da Alessio D’Amato e dalla ormai famosa vice-segretaria regionale del Molise (sic!), nel motivare le loro irrevocabili dimissioni dal Pd mi è venuta in mente una scena di “Questo mondo non mi renderà cattivo!”, quando l’Armandillo – il personaggio con la straordinaria voce di Valerio Mastandrea – si rivolge a Zerocalcare e gli dice “tutto ciò è uno spunto davvero interessante, però lo devi dire alla persona preposta a raccogliere queste idee, che si chiama … Stocazzo!”.
È ovvio che Elly Schlein non lo ha detto e forse non lo ha pensato. Ma la sua relazione alla direzione nazionale è apparsa – soprattutto a chi se ne intende – grosso modo un elegante tentativo per dimostrare che in fondo “non è rimasta insensibile” a tali argomenti, ma che però non ha nessuna intenzione di farsi prendere dall’angoscia e rinunciare al suo ruolo di capo eletto del Pd.
Angoscia in cui sembrano invece precipitati giornalisti e commentatori politici di fronte all’ennesimo tentativo di creare uno psicodramma nel Pd a causa delle reazioni degli oppositori interni alla innocua partecipazione della segretaria alla manifestazione del Movimento di Conte sabato scorso a Roma. Quella, per intenderci, in cui Grillo ha invitato a mettersi il passamontagna prima di andare a ripulire i giardinetti e che è stata interpretato come un appello alla lotta armata.
È da settimane che si tenta di aumentare la tensione interna al Pd, raccontando di uscite, rimozioni punitive, disaccordi e rotture definitive. Ogni argomento è valido per tentennare il capo e sussurrare “non gliela fa… non gliela po’ fa…”.
In ogni modo l’elenco appare striminzito: ad oggi sarebbero usciti dal Pd personaggi del calibro di Enrico Borghi (perché rimasto senza incarico), Giuseppe Fioroni (uscito dal Pd diversi anni fa), Carlo Cottarelli (che nel Pd non era mai entrato), Andrea Marcucci (che nel Pd ci stava solo perché era amico di Renzi), Alessio D’Amato e – last but not least – la vice-segretaria regionale del pur piccolo Molise. Diciamo la verità, un elenco che avrebbe determinato in ogni altro partito dimissioni a catena e una grave crisi collettiva di coscienza!
Una parola merita, in particolare, il recente percorso politico di Alessio D’Amato, candidato sconfitto pesantemente alle recenti elezioni regionali del Lazio, diventato famoso perché assessore regionale alla sanità nel Lazio durante la pandemia, quando eseguiva con grande coerenza la linea dettata dal governo Conte-Speranza. A parte un clamoroso attacco hacker ai sistemi informativi che ha bloccato per giorni la sanità regionale e messo a rischio i dati personali di tutti i vertici del Paese, a cominciare dal Capo dello Stato. Sostenuto inizialmente solo da Calenda, D’Amato venne imposto da Letta e soprattutto contribuì alla rottura definitiva della maggioranza che aveva fino a qualche giorno prima sostenuto la giunta Zingaretti.
E poi su tutte c’è stata la vicenda del figlio di De Luca. Per settimane si è agitato lo spettro di un’imminente rottura con la famiglia del governatore campano, che invece non ha mosso un dito, salvo non far mancare il suo sarcasmo sul giovane gruppo dirigente, giudicato “radical chic senza essere chic”. In realtà nessuno ha avuto il coraggio di dire che solo un accordo correntizio aveva condotto il giovane rampollo, senza alcun titolo o particolare merito, ad un ruolo così importante nel gruppo parlamentare. E solo la sconfitta elettorale alle primarie di Bonaccini, che la famiglia aveva deciso di sostenere a spada tratta perché considerato il candidato vincente, ne ha generato la rimozione.
Schlein ha parlato alla direzione con tono pacato e rivendicato il suo percorso appena iniziato. Si è vista anche sciogliersi in qualche sorriso liberatorio. Ha infine fatto un invito a concentrarsi sulle cose importanti, che certo si può criticare ma “c’è bisogno di un po’ di rispetto”. Chi ha avuto la pazienza di ascoltare la relazione fino in fondo non vi ha trovato nulla di sbagliato, e su ogni punto politico e programmatico – dal Pnrr all’Ucraina, dalla sanità alle riforme istituzionali – il Pd non ha oggi una linea diversa da quella che ha perseguito con Zingaretti o con Letta. Dove nasce allora questa illusione di poter costringere la giovane segretaria a gettare la spugna?
In realtà quelli che oggi fa impazzire molti detrattori della Schlein è da un lato la fine del predomino sul partito da parte degli amministratori, che hanno in questi anni fatto il bello e il cattivo tempo, e impedito che il partito si pronunciasse in autonomia su temi cruciali, come ad esempio l’abuso d’ufficio su cui c’è stato oggettivamente uno sbandamento culturale e politico dell’Anci. Dall’altro lato c’è la fine del progetto del terzo polo, che non è più uno spauracchio per il Pd e soprattutto non offre più agli ex-renziani acquattati nel partito una via di fuga sicura. Verità amara per chi pensava di poter contare in ogni caso su una valida via di uscita.
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