Due tragedie di mare, ma due universi distanti anni luce uno dall’altro. Sono la sorte toccata al Titan, l’icona dell’eccesso, e quella del barcone ribaltato a Pylos, cinque morti sul primo, centinaia sul secondo. Ma, come ha detto l’ex Presidente Usa Barack Obama ad Atene, la vicenda del “sottomarino sta ricevendo una copertura mediatica minuto per minuto in tutto il mondo”, ben “più attenzione delle 700 persone morte che sono annegate: una situazione inaccettabile”.
Ovviamente, inconsciamente ci si giustifica con la frequenza dei naufragi delle carrette su cui vengono ammassati i disgraziati in fuga nei loro viaggi-speranza, una drammatica ripetitività che ha portato a un abbassamento della nostra capacità di attenzione, calata drasticamente da molti anni: ci sono studi che parlano di una soglia minima di 8 secondi, meno di un pesce rosso. Ossia dopo quel minimo lasso di tempo saremmo già portati a pensare ad altro. Con buona pace del Presidente Mattarella, che in occasione della Giornata del Rifugiato ha detto che “il dramma dei profughi non può essere ignorato: c’è la Costituzione a ricordarlo”.
Dall’altra parte, l’agonia del Titan ha assunto i toni di un thriller, dove l’attenzione è pompata dalla tensione, anche se si può intuire fin da subito l’epilogo della vicenda. Sullo (s)fondo l’influenza del relitto del Titanic, icona della sfida della lussuosa tecnologia moderna alla natura, miseramente finito a quattromila metri di profondità oceanica, nel mezzo di un nulla misterioso e affascinante a tal punto da spingere gli azzardi di ricconi in vena di prodezze stravaganti quanto pericolose, e quindi dal forte appeal. Non si tratta di esplorazioni, non si tratta di ricerche scientifiche: scattare qualche foto al relitto equivale a un selfie sulle rotaie della metro, stessa botta di adrenalina, stessa figata da pubblicare sui media.
Per queste due tragedie non esiste un denominatore comune, nemmeno l’acqua, tanto diversa quella del Mediterraneo (al largo di Navarino, nel comune di Pylos) – che dovrebbe essere monitorata dalle Guardie costiere e dai mezzi di scoperta avanzata prefrontaliera di Frontex -, da quella dell’Atlantico del nord, dove l’unica rete d’allerta è data dai fonometri Sosus (Sound Surveillance System), la catena di vecchia data di postazioni subacquee di ascolto, posizionate dagli Usa ancora ai tempi della guerra “tiepida” per monitorare le mosse dei sottomarini sovietici (comprensibile la riottosità nell’ammetterne la loro attuale attendibilità). C’è invece un evidente fattore direttamente proporzionale: tanta solerzia sembra sia stata spesa dalle autorità elleniche nel tentativo di coprire errori e omissioni delle proprie agenzie nei maldestri soccorsi, quanta quella dei media mondiali nel coprire l’implosione del batiscafo, quasi quei cinque aspiranti argonauti fossero gli avatar universali per un’avventura incredibile. Loro hanno sborsato 250 mila dollari a testa per concedersi l’immersione della fantasia, gli altri sciagurati hanno pagato in media 5 mila euro a scafisti e trafficanti per rincorrere una possibilità di vita. Un evidente stridore, che oggi è più udibile, amplificato da queste due disgrazie, ma che da molto tempo cresce sottotraccia, mentre la forbice sociale continua ad allargarsi.
Cinquant’anni fa i giovani si regalavano l’utopia di un mondo migliore, oggi i giovani temono un futuro distopico. Tra i due poli c’è tutta la distanza da colmare per equilibrare il vivere.
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