Forse dobbiamo ripensare tutto daccapo. Ed in fretta. Il tempo che scorre dagli inizi del nuovo millennio ci sta portando altrove rispetto alle premesse che, a fatica, si erano messe alla base di un futuro che appariva destinato a migliore la condizione di tutti.
È fallita la globalizzazione della democrazia, sono fallite le speranze di un dialogo tra mondi diversi, fallita anche la possibile Unione politica dell’Europa che, dopo la moneta unica, pareva più vicina. Anzi, le forze disgreganti guidate dall’interesse a breve di pezzi della società e dell’establishment politico hanno spinto per chiudere in confini sempre più stretti i popoli, spingendo e fomentando una rampante risalita delle identità nazionalistiche ed ideologiche, con i cittadini trasformati in tifosi del proprio interesse a breve.
Neppure la pandemia ha sortito effetti, non ha fatto risorgere un senso di comunità ampio ed il fallimento fuori dai nostri confini nazionali di una visione aggregante delle società trova un suo impetuoso gemello italico.
Siamo alle prese da oltre un secolo con la spaventosa voragine di diritti e sviluppo che si apre nei dintorni di Roma e che sprofonda sempre più man mano che ci si avvicina alle battigie calabro-siciliane. Le due Italie sono ancora qua con i loro tifosi divisi. E la voragine è profonda non nella percezione di chi ci vive, o nella narrazione della politica spicciola. Sono corpo vivo, distinte e divise realtà, anche nei numeri che impietosi raccontano un fallimento.
Stavolta tocca alle politiche di coesione varate dall’Unione Europea. In sostanza agli inizi del millennio si decise di dare denari aggiuntivi alle aree europee con parametri di sviluppo drammaticamente inferiori in alcuni loro pezzi. Polonia, Spagna e Romania, oltre a noi, i Paesi più beneficiati, solo che noi, guarda caso, da queste politiche non abbiamo avuto nella sostanza alcun beneficio. Anzi, secondo l’Istat nel 2030 il divario Nord-Sud sarà aumentato rispetto all’avvio di questa iniziativa.
Un fallimento. Dovuto a tanti fattori, a partire dalla crescita del Nord superiore sempre a quella del Mezzogiorno per passare per la pessima qualità della gestione locale delle risorse, con il contributo di un malcelato egoismo territoriale delle classe politiche rappresentative delle più ricche. Spesso quesì fondi sono stati dilapidati o, nei tempi passati, restituiti all’Europa per incapacità a programmarli ed investirli.
L’Istat con il suo documento intitolato “La politica di coesione. Vent’anni di mancata convergenza” non si sofferma su perché ciò sia accaduto ma ci dice, senza dubbi, che quella politica ha fallito. Non si è verificato il processo di convergenza delle regioni italiane classificate come “meno sviluppate” (pressoché quasi tutto il Mezzogiorno d’Italia ad eccezione dell’Abruzzo), che hanno continuato a crescere sempre molto meno della media dei Paesi dell’Ue27, sostiene il rapporto. E la causa, da rintracciare nel divario crescente in termini di reddito (misurato in Pil pro capite a parità di potere di acquisto) fra le regioni italiane economicamente meno avanzate e l’Ue27, è spiegato interamente dal tasso di occupazione, inferiore alla media Ue di ben 20 punti percentuali. Insomma, tutti i mali che c’erano sono ancora lì e 20 anni di politiche hanno prodotto risultati inesistenti.
Preso atto di ciò, interrogarsi sul perché è necessario. I meccanismi di spesa sono evidentemente inefficaci e soprattuto scontano un pregiudizio. Per un verso l’Europa condiziona i driver di sviluppo dedicando le risorse a monte a specifici capitoli che poi le regioni dovrebbero declinare a modo loro per impattare sul sistema produttivo; spesso però questi enti non hanno, con tutta evidenza, la visione e le competenze tecniche per attuare quei percorsi. Si finisce così per assecondare spese spacciate per afferenti pur di prendere i denari, o si invitano gli enti a programmare opere da finanziare per “non perdere i fondi europei”, opere che poi quasi mai diventano cantieri.
Ma come sta accadendo per il Pnrr, i bandi sono spesso immaginati per dare risorse a qualcosa che funziona e che dovrebbe avvantaggiarsene, mentre nel Mezzogiorno prevale una generico senso di precario abisso delle performance della Pa che non riesce, tranne lodevoli eccezioni, a programmare nulla.
È allora forse il caso di bypassare il problema. Di riflettere se non valga la pena dedicare queste risorse alle più antiche leve che servono per stimolare gli investimenti, concedendo che si taglino le imposte sulle attività produttive e si dia, a chi vuole rischiare, un’assistenza amministrativa efficace e semplificata. Fare del Mezzogiorno una grande area economico-speciale destinando tutte le risorse a due driver. Il primo le infrastrutture (come già il Pnrr ha fatto), ed il secondo l’abbattimento del prelievo fiscale sugli investimenti.
Del resto non si comprende perché la Germania offra ad Intel 10 miliardi di sgravi fiscali in alcuni anni per diventare l’hub mondiale dei microchip e noi non non si possa prendere quei tanti soldi (spesso buttati o restituiti) per attirare grandi investitori nel Mezzogiorno. Le grandi aziende, i grandi progetti portano assunzioni di qualità di laureati, tecnici e operatori specializzati che oggi (altra piaga) continuano invece a migrare per mettere a frutto le loro competenze. Per quanto sia difficile da accettare, mille pizzerie nuove con 10 dipendenti assunti non avranno mai lo stesso valore strategico ed economico di un colosso produttivo con 10mila neoassunti per lavorare su progetti e prodotti innovativi. Anche se la matematica dice che sempre 10mila posti sono, la statistica spiega, assieme all’esperienza, che non sono per niente la stessa cosa. Ed il Mezzogiorno non verrà mai fuori dal pantano con il turismo e la ricettività.
Per fare questo le risorse ci sarebbero. Per il periodo 2021-2027 i fondi disponibili sono oltre 47 miliardi. Quelli degli anni passati hanno prodotto zero risultati ed anzi il divario, come emerge dal rapporto, è destinato aumentare negli anni a venire. Continuare a spendere quei soldi nello stesso modo significa solo una cosa: non voler cambiare il destino del Mezzogiorno e volerlo solo usare per fare un po’ di cassa per i soliti amici ed un po’ di propaganda per i voti.
Ma è tempo di cambiare, ripensare tutto e dirsi la verità. Sennò continuerà tutto a sprofondare, tirandosi dietro anche chi pensa di stare al sicuro.
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