Un comunicato del Cremlino scrive la parola fine ad un 24 giugno che rimarrà nella storia della Russia. “È stato trovato un accordo per evitare spargimenti di sangue. Prigozhin andrà in Bielorussia, l’inchiesta penale su di lui verrà chiusa. I combattenti della Wagner che hanno preso parte alla marcia non verranno processati. Quelli che non vi hanno partecipato verranno inquadrati nell’esercito russo”.
In queste righe c’è la conclusione di una serie di eventi cominciati circa 24 ore prima, con la dichiarata volontà del leader della compagnia paramilitare Wagner, l’istrionico uomo d’affari Evgenij Prigozhin, di marciare su Mosca, dopo avere preso il controllo di Rostov sul Don, la città con il ruolo importante di baricentro organizzativo delle forze russe impegnate sul fronte ucraino.
Una insurrezione fermatasi 200 km prima di Mosca grazie alla mediazione del presidente bielorusso Aljaksandr Lukashenko, di comune accordo con il presidente russo. Ventiquattr’ore che hanno tenuto tutti i governi del mondo, da Washington a Pechino, con il fiato sospeso e due aspettative contrastanti: l’auspicio di un golpe contro Putin oppure lo status quo.
Non è facile orientarsi negli eventi di queste ore, separando i fatti dalle congetture. Ci abbiamo provato interpellando il generale Marco Bertolini, già comandante del Coi e della Brigata Folgore in numerosi teatri operativi, dalla Somalia all’Afghanistan.
Putin esce più forte o più debole dall’insurrezione di Prigozhin?
Ne esce rafforzato, perché il primo tentativo reale di regime change, ammesso che di questo si trattasse, è stato fermato, di fatto, ancor prima di cominciare.
Si riferisce all’accordo raggiunto? Esilio del leader in Bielorussia, amnistia per i ribelli?
No, questi sono dettagli che andranno verificati e analizzati dopo. Con il suo unico discorso pubblico di oggi (ieri, ndr), Putin ha sbloccato una situazione che rischiava, dal punto di vista della Russia, di avere conseguenze gravi sul piano interno e di mandare all’aria una guerra nella quale le forze ucraine non riescono ancora a sfondare.
Il leader russo ha accusato Prigozhin di “tradimento, risultato di ambizioni esorbitanti e interessi personali”.
Sulla base di quello che sappiamo, è la presa di posizione che ha condizionato la trattativa. L’accusa di tradimento da parte Putin, che ha sempre avuto un forte ascendente su Prigozhin, è stata decisiva. Con la ribellione armata Prigozhin ha mostrato ciò di cui è capace, invece Putin no, si è limitato a farlo capire con un discorso.
Nient’altro?
Ha poco senso, adesso, chiedersi come mai la Wagner è riuscita ad avvicinarsi fino a 200 km da Mosca. Ovviamente sarebbe interessante saperlo, ma i fatti ci dicono che una trattativa c’era, Prigozhin si è fermato e ha cambiato idea.
Come commenta la sua decisione di agire in questo modo, in questo momento?
Quello che più mi ha colpito di Prigozhin non è tanto il fatto di avere occupato Rostov, o di avere marciato su Mosca, ma le cose che ha detto, in totale controtendenza con la narrativa russa, sul numero dei caduti, gli errori e le motivazioni della guerra. Un attacco senza precedenti allo Stato russo. A quel punto due sviluppi erano possibili.
Quali?
O schiantarsi con il suo “Zero” contro la portaerei prima amica e ora nemica, oppure allargare l’insurrezione armata. Ma questo non è avvenuto.
Intende dire che aveva forze troppo esigue? Nell’incertezza delle informazioni disponibili, si è letto che i Wagner potrebbero essere 25mila, e che la colonna diretta su Mosca fosse composta da 5mila uomini…
Una forza simile non è sufficiente per creare problemi ad uno Stato come quello russo. Per capirci: serve una logistica di supporto, non basta fermarsi alle pompe, rifornire i mezzi e proseguire per Mosca. Del tutto diverso sarebbe stato se la Wagner si fosse dimostrata un polo di aggregazione di altre forze. Ma è un’ipotesi che non ha preso corpo.
Era questo il suo obiettivo?
Non si può escludere.
La guerra civile è ufficialmente iniziata, ha comunicato ieri la Wagner alle 11:58. Lei come chiamerebbe ciò che è avvenuto? Golpe, insurrezione?
È stato un tentativo di pronunciamento militare. Magari proprio con l’intento di aggregare altri scontenti che ci possono essere nelle forze armate.
Con un obiettivo politico?
Sì, è possibile, in fin dei conti Prigozhin viene dal mondo civile, non da quello militare. Per dirne una, qualche tempo fa aveva detto che si sarebbe candidato come presidente dell’Ucraina. Ora però sono congetture che non hanno più senso.
Potrebbero esserci state delle influenze esterne?
Non possiamo escluderlo. Ovviamente è un’illazione, fino a quando non ne sapremo di più, se mai avverrà. È evidente che ieri si è creata una situazione a tutto vantaggio di chi sul fronte ucraino si contrappone ai russi.
In un video di venerdì che ha preceduto l’iniziativa, Prigozhin ha rivolto accuse durissime, senza precedenti, al suo grande antagonista, il ministro della Difesa Sergej Shoigu. Ma si può dichiarare guerra ai vertici militari del Paese e non a Putin?
No, è contraddittorio, perché la sopravvivenza e le fortune della Wagner, dal Sahel al Centrafrica, dalla Libia alla Siria, non dipendono certamente dal patrimonio di Prigozhin, per quanto ingente, ma dal supporto delle autorità russe e anche dello stato maggiore russo. Proprio per questo, al netto della questione dell’inquadramento delle forze paramilitari nell’esercito russo, che Prigozhin abbia preso una posizione così dura dopo i successi sul fronte ucraino mi pare davvero schizofrenico.
Torniamo all’accusa di tradimento. Perché secondo lei è stata così decisiva?
Perché nel momento in cui un comandante, Putin, accusa di tradimento un suo sottoposto, Prigozhin, che ha agito in un certo modo, indietro non si torna. Ma Putin non ha solo parlato di tradimento.
A cosa si riferisce?
Al richiamo ai fatti del 1917: c’è sempre chi sfrutta le divisioni interne alla Russia, ha detto Putin, proprio come è accaduto ai rivoluzionari del ’17, che hanno fatto perdere alla Russia la prima guerra mondiale. In altri termini, i comunisti sono come Prigozhin. Non si marcia su Mosca con la bandiera russa sguarnendo il fronte. Una chiara divisione dei ruoli, ad uso dell’opinione pubblica.
(Federico Ferraù)
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