A proposito del volume di Cinzia Cremonini, Pierantonio Frare, Paola Ponti, Danilo Zardin, Le pandemie in Italia tra cronaca, letteratura e storia, a cura di Maicol Cutrì, Marcianum Press, Venezia 2023
L’illusione di viaggiare sicuri sul treno del progresso della storia è un abbaglio che non regge davanti all’osservazione di come si sia arrivati alla situazione attuale, con al centro una vita umana esposta al rischio permanente di assalti violenti e rapine distruttive.
In modo quanto mai esplicito ce lo ricordano i contagi epidemici che, ciclicamente, hanno messo a dura prova comunità e popoli molto più sguarniti di difese rispetto alla società medicalizzata e ipertecnologica in cui ci troviamo oggi immersi. La pandemia da coronavirus esplosa all’inizio del 2020 è solo l’ultimo episodio di una lunga serie di eventi che hanno impresso ferite dolorose nell’esistenza dell’umanità.
Più che di una replica, si è trattato, in realtà, di un fenomeno carico di elementi decisamente nuovi. Prima di tutto, per le dimensioni inusuali di una minaccia estesa, con ricadute quasi simultanee, all’intero contesto planetario. Poi per la severità di una sfida non solo globale, ma rimasta per molti mesi ingovernabile, alla quale non siamo stati in grado di opporre che risposte tardive, settoriali, cariche di implicazioni problematiche per la tenuta dell’ordine sociale e il ripristino di condizioni di almeno relativa “normalità”. Il virus, d’altra parte, era un’insidia sconosciuta, molto più invasiva di altre simili che l’avevano preceduta nel tempo. La sua irruzione sulla scena ha colto impreparato un mondo alle prese con ben altre preoccupazioni dominanti sul piano internazionale.
Eppure, se si prova a confrontare quanto è successo negli ultimi tre anni con le epidemie di peste riaffacciatesi alle porte dell’Occidente sul finire del medioevo e poi, spostandosi in avanti, con le ondate più recenti di vaiolo, di colera, dell’influenza spagnola di inizio Novecento, ci possiamo rendere conto che le enormi differenze tra i veicoli di trasmissione del contagio, nel tipo di risposte messe in atto, così come nelle stesse dimensioni delle condizioni di crisi in cui si finiva con l’essere trascinati, si sono senza sosta intrecciate a tenaci soprassalti di continuità nei modi di leggere e interpretare cause ed effetti dei drammi collettivi.
La stessa cosa avveniva sul versante delle vie di uscita immaginate per svincolarsi dallo stato di eccezionalità e favorire l’apertura di una nuova fase positiva. Cambiano le circostanze storiche e gli attori implicati. Cambiano i linguaggi utilizzati per fronteggiare l’emergenza. Ma al fondo di un flusso di vicende che si modificano di continuo sotto i nostri occhi riconosciamo l’intatta forza di resistenza del cuore umano, con il suo nucleo inestirpabile di ragionevolezza, il suo desiderio di riscatto e di recupero delle possibilità di vivere in pace da cui anche le circostanze più avverse non possono mai costringerci a prendere le distanze in modo totale. La crisi riporta in piena luce la precarietà della condizione umana e obbliga ogni soggetto minimamente consapevole a mettersi in azione per risanare i guasti introdotti nell’edificio della casa comune, secondo un ideale di bene, di ordine, per un disegno di senso e di valori da restaurare che si riscoprono come una risorsa a cui di nuovo attingere per ripartire. Ciò che risulta decisivo è il contraccolpo della reazione che si sprigiona, generando una energia di ricostruzione: solo così si può evitare di finire sommersi, miseramente travolti dalla frana delle antiche certezze.
Forse è proprio questo l’insegnamento che si può ricavare scorrendo le pagine di cronaca e le rielaborazioni narrative degli eventi di crisi lasciate da grandi autori come Boccaccio, Guicciardini, Federico Borromeo, Muratori, Pietro Verri, Genovesi, Alessandro Manzoni, solo per citare alcuni dei nomi più prestigiosi raccolti nell’antologia che presentiamo. Ma deduzioni analoghe si possono trarre dalla rilettura dei testi nati nell’ambito medico-statistico, sul fronte della divulgazione scientifica, o semplicemente nel quadro della elaborazione di regole di comportamento e di dispositivi legislativi creati dalle istituzioni degli organismi cittadini e degli Stati moderni per arginare lo scatenamento dell’imprevisto scardinatore.
Un abbozzo di questa spinta inesorabile a non tollerare le lacerazioni nei ritmi consolidati del sistema del vivere si ritrova persino nelle scritture a sfondo autobiografico che un numero elevato di autori, più o meno attrezzati nella pratica letteraria, ha contribuito a moltiplicare specialmente nella fase della reclusione forzata e del distanziamento sociale imposti nei primi mesi dell’ultima ondata pandemica, insinuatasi con il suo andamento a singhiozzo in un presente solo da poco avviato a perdere le sue punte di aggressività più pericolosa.
La catena delle testimonianze in cui si riflettono i colpi prodotti dalla perdita del controllo sulla salute pubblica arriva fino a lambire i nostri giorni: ed è impressionante rilevare che la sua trama di discorsi, di analisi dei disagi, di indicazione delle strade da percorrere per liberarsi dalla morsa di un male soffocante continui a ruotare intorno a una piattaforma di codici fortemente stabili, pronti a far sentire la loro forza condizionante nei più diversi contesti civili.
Il dilagare dei contagi è sempre avvertito come una marea difficile da contenere negli schermi di protezione innalzati grazie all’esperienza acquisita. Quando gli agenti patogeni cominciano a fare il vuoto davanti a sé, significa che le difese conosciute si rivelano ormai insufficienti. È all’opera qualcosa di nuovo, come un’arma micidiale che non si sa come disinnescare. Nel mentre si elaboravano i rimedi anche più fantasiosi (farmaci, antibiotici, vaccini sono scoperte affacciatesi solo nell’ultimo tratto del cammino della modernità), le prime forme di tutela a cui fare ricorso sono sempre stati la riduzione al minimo possibile dei contatti interpersonali, l’isolamento coatto negli spazi domestici, la distruzione degli oggetti ritenuti veicoli di infezione, la purezza dell’aria da respirare garantita tramite filtri indossati come maschere, insieme a profumi e sostanze da bruciare finalizzati a rigenerare gli ambienti in cui ci si muoveva.
Prima che potessero essere attrezzati padiglioni ospedalieri per le malattie infettive e reparti di rianimazione per la cura dei malati cronici più gravi, l’unica strada percorribile era il trasferimento nei recinti chiusi dei lazzaretti, con la segregazione dai quartieri cittadini e la sepoltura dei cadaveri in spazi drasticamente separati. La sospensione della vita sociale ordinaria creava le premesse per frenare il diffondersi delle offensive epidemiche e prima o poi la minaccia incombente si attenuava, traghettando la risalita a una condizione di sicurezza. L’epidemia non era un male estirpabile: piuttosto, era la traversata di un deserto in cui non si poteva evitare di inoltrarsi, affidandosi a tutte le promesse di sostegno che, fino a un recente passato, solo il rapporto con la sfera del sacro, ben più che la scienza e le strategie della politica umana, è stato in grado di offrire nel mare agitato dalle tempeste più devastanti.
La secolarizzazione della mentalità culturale e del costume sociale ha eroso lo spazio di influenza dell’elemento religioso, a vantaggio dell’incremento progressivo dello scudo puntellato dall’ingegno inventivo della progettazione umana. Da una parte questo si è riverberato nella crescita del benessere materiale su vasta scala. Ma la ritirata dell’ancoraggio alla dimensione dell’assoluto divino ha lasciato aperta la sfida del senso da restituire a un’esistenza dove tutto, tanto più di fronte al baratro vertiginoso della violenza del dolore e della morte a prima vista ingiustificata, reclama il diritto insopprimibile alla pienezza dell’eterno.
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