Il canone della letteratura italiana basso-medioevale tende a relegare autori come Cecco Angiolieri (1260-1313) e Guittone d’Arezzo (1235-1294) in posizioni marginali.
Di sicuro nessuno li associa alla triade trecentesca di Dante, Petrarca e Boccaccio: un errore di natura innanzitutto storiografica. Cecco da Siena è un contemporaneo del Sommo Poeta; Guittone, nella critica ai toni illusoriamente elegiaci ed effettivamente sensuali dello Stilnovo, anticipa l’originalità di successivi rimatori italiani. Incombe sui due però la condanna del tempo: uno è il guitto burlesco di una terra ghibellina, irridente e vizioso; l’altro è un moralista, e dal lessico pesante, che poi in età più adulta si proietta, addirittura, alla letteratura ascetica. Peccato civile e sciagurato per il XIV secolo: così attuoso, associativo, amico più della piazza, dell’università e del comune, che dell’eremo, della grotta, del pulpito o dello scrittoio.
Entrambi in ogni caso assediano l’immaginario stilnovista come gli amanti traditi di un verbo nuovo che non è mai giunto a maturazione. Cecco sfrontato invita a lasciar perdere il rimare d’occasione, le parole perfette che dietro il paravento della giaculatoria nascondono l’evento del desiderio. E perché allora nasconderselo? Perché non dedicarsi davvero ad esso senza pretendere di cucirgli addosso il diaframma giustificativo del bel parlare? Guittone usava argomento simile (la rivendicazione di sincerità) dalla parte esattamente speculare: gli stilnovisti non sono a caccia di capolavori, ma di amori carnali che coltivano con la lusinga del verso.
Lo Stilnovo contiene alcune delle pagine più belle della poesia europea di ogni tempo e proprio il suo presunto deficit di originalità è in realtà una delle note più tipiche. È l’incontro toscano di tutta la lirica del mondo conosciuto: l’aulicità provenzale, qui irrobustita di un uso tipicamente teologico-canonico del sillogismo; la logica e la scienza araba, che producono una poesia di concretezza empirica nella descrizione dei fenomeni percepiti; la conoscenza della letteratura del passato che anticipa e forse approssima la nascita di una filologia metodologica sulle fonti. E tuttavia quanto colgono nel segno Cecco e Guittone a rinfacciare al trionfo stilnovista le cadute retoriche dei suoi epigoni!
Guittone, abituato a rime accesissime di tensione morale, si trova davanti una levità che gli appare mascherare la concupiscenza. Cecco, all’opposto e in modo perfettamente complementare, inorridisce davanti a quei poeti in livrea che una divisa ufficiale vogliono cucire pure sopra l’amore. Chi è in fondo che fa la taverna, la bisca, il postribolo? La stessa coscienza e pratica umana che pretende di amministrare giustizia su delega divina: è negli angiporti, negli ostelli, nelle beghe invece che a volte improvviso Dio s’affaccia a colmare di grazia il cuore dell’ultimo dei peccatori.
E Guittone non verga rimbrotti lamentosi. Anche lo strepito, l’apocalisse, la condanna inorridita alla corruzione dei costumi hanno un tempo che li genera e una ragione di natura che li trascende: anni di cattive azioni urgono sempre la furia d’una reazione. Ancor più se dall’ordine religioso offerta a quello mondano non con verdetti di forca, ma con la pena di vedersi irati, soccombenti, marginalizzati.
Circa due secoli prima, Bernardo di Chiaravalle rifletteva sulla Lettera ai Romani: la legge dello spirito ha sconfitto, e per davvero, quella del peccato e della morte. Eppure si continua a morire, perché nella nostra irrinunciabile mortalità carnale si compie la verità.
Contro gli ipocriti che infestano la Chiesa e la città, che lasciano scadere i valori in bandiere per accaparrarsi potere e che mai leggono fino in fondo i “signa temporum”, il grande Alfonso Maria Liguori, a metà del XVIII secolo, può permettersi di tirar dritto. E certo non perché gli ipocriti siano diminuiti! C’è da credere che ci siano nell’eternità Paradiso e Inferno e che uno di loro ci attenda: chi ha depredato l’urbe per riempirla di idoli falsi non è per nulla più vicino al cielo di chi, in atto di contrizione sincera, abbia riconosciuto di avere sbagliato.
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