In attesa che l’azzardo sul rinvio della ratifica del Mes entro il mese di giugno del 2024 generi la reazione sullo spread che il mese di agosto potrà solo amplificare, c’è vita sul pianeta Eurovita. Almeno, così sembra. E i due argomenti sono legati a doppio filo dalla logica del nascondere la polvere sotto il tappeto. Evitando accuratamente una prospettiva che ne renda palese già oggi la deformazione e facendo affidamento sul misto di disinteresse e disinformazione con cui viene nutrita l’opinione pubblica.
Se infatti la stessa Giorgia Meloni ha certificato l’azzardo di un testo della minoranza da far giungere in Aula nella sua versione di minoranza e per essere immediatamente rinviato non più a settembre ma potenzialmente fra un anno, ecco che filtrano notizie a spizzichi e bocconi sull’altro tema che vedeva nella giornata di ieri – venerdì 30 giugno – l’ennesima falsa data spartiacque. Come era prevedibile e come vi dico da settimane, il blocco dei riscatti per i detentori di polizze del gruppo commissariato non è terminato. Si va almeno a fine settembre. La ragione? Semplice, i cinque cavalieri bianchi hanno trovato l’accordo e questo in automatico attiva la nascita della newco. La quale, statutariamente, viene al mondo senza disporre della licenza assicurativa. Ragione per cui per poter operare avrà bisogno delle autorizzazioni di Ivass e Covip, oltre all’avvallo dell’intero schema da parte dell’Antitrust. Almeno un paio di mesi di provvidenziale bizantinismo procedurale, a cui occorre però unire il mese di agosto in modalità serrata. Con ogni probabilità, la situazione attuale perdurerà almeno fino a ottobre. Esattamente quando il Governo pareva intenzionato a risolvere la grana Mes, speranzoso di averne nel frattempo venduta la nuda proprietà dello scalpo in sede europea per garantirsi tranche del Pnrr e Patto di stabilità senza tagliole. E invece, quel rinvio così sfrontato potrebbe generare mostri da qui ai prossimi sessanta giorni.
Ma non basta. Stando ai particolari tutti ancora da confermare nero su bianco, i cinque salvatori acquisteranno la società per una cifra simbolica, di fatto mettendo sul piatto i 500 milioni necessari a garantire le polizze. Le quali verranno però congelate. In attesa che, sempre in autunno, i subentranti si siedano con calma a un tavolo e decidano la divisione degli assets, di fatto divenendo i nuovi referenti/garanti degli investitori. Nel frattempo, i 400.000 assicurati vittime del blocco dei riscatti a febbraio dovranno attendere. La strategia? Prepariamoci – non appena l’inchiostro si sarà asciugato sul foglio dell’accordo – a una campagna stampa degna del Btp Valore, incentrata sul grande risultato ottenuto e sull’invito alla massima serenità: certo, quei soldi sono bloccati per altri tre mesi (almeno), ma tutto per garantire una soluzione finalmente solida e definitiva alla querelle. La stessa che a febbraio sarebbe stata gestibile con 200 milioni messi sul piatto dal sistema. Un azzardo. Magari non morale.
Ma se da un lato non è affatto garantito che l’Ue accetti senza reagire la pantomima sul Mes, dall’altra il settore assicurativo dovrà fare i conti non con redemptions di massa, rinviate ancora una volta attraverso mezzucci che garantiscano gates ben alzati e insormontabili, ma con un possibile, strisciante logoramento della fiducia. Di controparte. Paradossalmente, ben peggiore di quella dell’assicurato. E anche nella sostenibilità del nostro debito, stante l’azzardo sul Mes. Guarda caso, i cinque cavalieri bianchi utilizzeranno i Btp sottostanti alle polizze come garanzie presso le banche per ottenere il denaro che operi da backstop alle medesime. Il gioco delle tre carte, insomma. Ma attenzione, perché i rischi sottotraccia crescono. E non solo nel nostro Paese. Parafrasando un cult movie natalizio, potremmo dire che Deutsche Bank ha appena girato il sequel finanziario dal titolo Mamma ho perso le azioni. E per dirlo, il colosso tedesco ha deciso di emanare una circolare. Con la quale avvisava i clienti sulla scoperta di uno shortfall su azioni facenti capo a depositary receipts (DR) emesse prima dell’invasione dell’Ucraina.
In parole povere, titoli di aziende russe attualmente detenute da una differente banca depositaria di quel Paese. E sparite dal radar. E nella nota Deutsche Bank sposa il millenaristico a scoppio ritardato, sottolineando le sfide globali che gli investitori stanno affrontando per recuperare investimenti incagliati nelle aziende russe. C’è però un problema: quella nota è datata 9 giugno. E Reuters ne ha preso visione. Ovvero, prima del golpe-farsa dello scorso weekend e dopo oltre un anno di guerra e di sanzioni e congelamenti verso Mosca, Deutsche Bank decide di avvisare che certi titoli sono spariti.
Ma attenzione al passo successivo, perché dopo i toni da armageddon geopolitico, il colosso tedesco decide di andare sul classico. E indossare la grisaglia del blame on Russia, un sempreverde. Lo shortfall su quei titoli sarebbe infatti totalmente da imputare alla decisione dei regolatori russi di tramutare quelle DR in titoli azionari locali, decisione presa “senza coinvolgimento o supervisione” di Deutsche Bank. Decisione però presa un po’ di tempo fa. Ben prima del 9 giugno. Ma che nessuno ha sentito il bisogno di comunicare, mettendo in guardia sui rischi che presuppone per gli investitori.
Deutsche Bank è la prima banca ad ammettere la situazione, ma non certamente l’unica. Perché? Forse quei titoli sono troppi per poter tenere nascosta la loro “sparizione” ancora per molto, stante il rischio di showdown totale tra Russia e Occidente dopo il blitz della Wagner? D’altronde, i DR altro non sono che certificati emessi da una banca che rappresentano a tutti gli effetti titoli di un’azienda estera quotata sul suo mercato locale. Di fatto, uno swap fra DR e titolo della compagnia russa rappresenta il primo tentativo di recupero dell’investimento. Spesso inutile. E i nomi coinvolti contemplano Aeroflot, il gruppo di costruzioni LSR Group e grandi nomi minerari e dell’acciaio come Mechel e Novolipetsk Steel. E chi opera, fra gli altri, come depositary bank per gran parte dei programmi di DR su aziende russe, stando a dati ufficiali di Clearstream? JPMorgan & Chase, Citigroup e BNY Mellon. Insomma, i fiori all’occhiello del capitalismo sanzionatorio. Oggi Deutsche Bank decide, di colpo, di permettere gli swaps fra DR e azioni locali, in modo da garantire almeno una formale possibilità di uscita dal mercato russo agli investitori. Mosca, dal canto suo, chiede un 10% come exit tax, stando alla definizione del Tesoro Usa.
Non so voi, ma io sento un colossale odore di scandalo internazionale relativo a una sistematica violazione delle sanzioni. Da chiudere in fretta. E con un capro espiatorio, un agnello sacrificale di prim’ordine. Da tempo ostaggio dei desiderata Usa. Non so voi, ma al sottoscritto quelli che stiamo vivendo non paiono affatto tempi propizi per sfidare a duello l’Ue, rinviando il Mes di un anno. E il trappolone sugli immigrati in cui Giorgia Meloni è caduta con tutte le scarpe al Vertice europeo rappresenta uno spoiler tutt’altro che tranquillizzante. Tanto più che, al netto dei silenzio dei media, la famosa terza tranche del Pnrr, il cui sblocco è questione di ore da almeno tre mesi, ora è ufficialmente slittata a settembre, mentre la quarta da 16 miliardi attesa per l’autunno arriverà (forse) nella primavera del 2024. Chi di rinvio ferisce, di rinvio perisce. E attenzione, Nadef alla mano, questo significa già oggi manovra correttiva prima della nuova Finanziaria. In piena recessione.
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