Forse l’unico “assalto” andato a segno sulle Generali è stato quello iniziale: quando ancora le scalate di Borsa non aprivano le prime pagine dei grandi media ed erano avvolte da aloni di mistero. Come appunto il mini-rastrellamento che giusto mezzo secolo fa consentì a Mediobanca e Lazard di mettere per la prima volta il guinzaglio al Leone di Trieste. Nel 1973 il 5% della compagnia fu chiuso a chiave dalle due banche d’affari in una cassaforte lussemburghese (Euralux), dando alle Generali un primo nocciolo duro proprietario innestato su due radici storiche: la finanza ebraica internazionale e quella laica nazionale (parziale scudo durante il ventennio fascista). Cinquant’anni dopo il controllo delle Generali è ancora di Mediobanca: con un pacchetto non così più corposo di quello di allora. E la banca – a sua volta – è riuscita a difendere la sua stessa autonomia dopo la scomparsa del fondatore Enrico Cuccia.
A nulla sono valsi svariati “assalti” diretti all’istituto, spesso motivati dalla volontà di impadronirsi della compagnia. E neppure le grandi manovre attorno alle Generali hanno scosso gli equilibri storici. La più nota è importante è stata un realtà un “contrassalto”: ordinato dal 2002 dal Governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio. All’indomani della morte di Cuccia il delfino-erede Vincenzo Maranghi aveva “autoscalato” Mediobanca con l’aiuto del finanziere Vincent Bolloré e di altri investitori internazionali. Un rastrellamento “di sistema” (vi parteciparono tutte le grandi banche e fondazioni italiane) assediò la leadership di piazzetta Cuccia a Trieste: ottenne l’estromissione di Maranghi ma nulla di più. Né in Piazzetta Cuccia – per quanto ridimensionata -, né a Trieste: pure ormai lontana dei fasti che la vedevano pari grado fra le Big Three europee, con Axa e Allianz. Un personaggio del peso di Cesare Geronzi si era seduto nell’ufficio di presidenza del Leone, ma oggi è dimenticato. Il “co-equipier” di Cuccia nel blitz del 1973, Antoine Bernheim, è morto da tempo. Un top manager assicurativo rampante come Mario Greco ha sfruttato la massimo la poltrona di amministratore delegato del Leone, ma per catapultarsi al vertice di un gigante globale come Zurich (e senza voltarsi indietro, né sul piano personale, né su quello finanziario).
Non è un caso che i più recenti “assaltatori” del sistema fortificato Mediobanca-Generali – i finanzieri Leonardo Del Vecchio e Francesco Gaetano Caltagirone – abbiano giustificato la loro iniziative con l’ansia di non veder appannarsi quello che resta il vero gioiello del sistema finanziario italiano. E scomparso Del Vecchio – un anno fa – sembrava essere venuta meno anche l’ennesima “forza propulsiva” del capitalismo nazionale infine attratta verso Trieste. Ora invece Delfin (divenuta holding degli eredi Del Vecchio) ha chiesto di salire oltre il 10’% in Generali: non è del tutto chiaro se per un semplice passaggio amministrativo (così ieri sottende un passaggio interlocutorio della società) oppure con reale volontà di oltrepassare il Rubicone. Né – ancora una volta – è nitida l’esistenza o meno di un coordinamento con Caltagirone.
Probabilmente la vera notizia è che l’Ivass ha dato il suo benestare: ed è – in concreto – la stessa authority (la Banca d’Italia, il cui direttore generale è presidente della vigilanza assicurativa) che in proprio e via Bce ha invece finora sempre negato a Delfin e/o Caltagirone la possibilità di trasformare le loro partecipazioni azionarie in vera leva di controllo su Mediobanca. Non è sfuggito che – anche se in termini di coincidenza virtuale – il via libera Ivass sia giunto “ad horas” dopo la designazione di Fabio Panetta a nuovo governatore in via Nazionale, dove il rapporto con le Generali è di lunga data e complesso.
Il fondo pensioni della banca centrale è stato a lungo titolare di un pacchetto non trascurabile a Trieste: tradizionalmente e tacitamente in appoggio al management interno della compagnia. È stato dopo la lunga e turbolenta “eredità Cuccia-Maranghi” che palazzo Koch ha deciso di dismettere la quota, stabilendo una piena distanza fra vigilante e vigilato. Ma forse è anche per questo che oggi Bankitalia-Ivass mostra di osserva con occhio distaccato – puramente tecnico – le vicende di una grande istituzione finanziaria guidata da un manager francese (il Ceo Philippe Donnet) puntellato da una Mediobanca ormai “apolide” nello stesso sistema italiano. E da anni abbarbicata attorno al Leone quasi come unica propria ragion d’essere.
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