Accompagnata da una discreta visibilità mediatica, lo scorso 21 giugno al ministero della Cultura, nell’ambito della presentazione del secondo Festival Euromediterraneo dell’Economia (Feuromed), è stata annunciata la “Carta di Napoli”. Le presenze del ministro del Turismo, del sindaco di Napoli e di giornalisti di livello nazionale testimoniano come, nelle intenzioni dei promotori, si sia voluto dare a questo documento una rilevanza non solo locale. Viste le altisonanti dichiarazioni dei protagonisti dell’evento, è interessante conoscere nel dettaglio il contenuto del documento. Gli obiettivi indicati dal documento sono decisamente ambiziosi.
Uno dei principali è “cambiare la narrazione del Sud” a cui si aggiunge l’intento di contribuire alla redazione della Nadef (Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza); ancora, “programmare e pianificare nel medio e nel lungo periodo una piattaforma energetica e logistica, puntare sul capitale umano come leva strategica dello sviluppo e mettere insieme quello immateriale e sociale, istituire un laboratorio permanente per i giovani talenti attraverso una Summer School e infine ridimensionare le differenze tra le diverse aree dell’Unione Europea”.
“Tutto quanto molto bello” direbbe il mai eguagliato Bruno Pizzul. Peccato che tanta parte di quanto prefissato dagli autori della Carta si è già sentito, e più di una volta, in passato. Correttamente è stato detto che “cambiare la narrazione vuol dire documentare la realtà, l’eccellenza delle Pmi in settori come l’aerospazio, la difesa, il valore delle startup, il primato dell’agricoltura”. È altrettanto vero che talvolta, però, è più utile volare (rectius, partire dal) basso, raccontando anche le difficoltà che tanti operatori economici trovano nella banale quotidianità a causa della zavorra costituita dalla burocrazia quando non anche dai pesantissimi cosiddetti “condizionamenti ambientali” e che impediscono a tanti imprenditori impegnati nei più diversi settori di diventare a loro volta “eccellenze”. Cosi come, forse, invece che tanti centri studi o nutrire pretese di influenzare le programmazioni nazionali, sarebbe più utile creare degli organismi di cerniera tra gli operatori e le istituzioni, anche e soprattutto locali, finalizzati più a facilitare il “fare” che non ad articolare un “programmazione” di dubbia e difficile verificabilità che, soprattutto, dipende da troppe incontrollabili variabili; prima tra tutte, decisioni che vengono prese a prescindere dal territorio.
Ci sia perdonata la franchezza, quello che emerge non ha propriamente né il carattere della novità né della concretezza. A certificarlo, le dichiarazioni a margine di alcuni dei protagonisti dell’evento. “Il Sud desidera di nuovo essere al centro del mondo economico”; nell’epoca dove tutto, in particolare l’economia, è globalizzato, parlare di un “centro” che debba catalizzare qualcosa, sembra quasi un non senso, oltre che leggermente anacronistico. Espressioni del tipo “l’Italia non è Italia senza il Sud”, poi, non si possono proprio più sentire; forse che qualcuno pone ancora seriamente in discussione la cosa? Per non dire del “Sud che guarda all’Africa per essere ponte con l’Europa del Nord”; a qualcuno sfugge che ogni giorno del calendario c’è un’Africa che non solo osserva ma letteralmente sbarca al Sud, costringendolo a guardare in faccia uomini, donne e bambini in carne e ossa che sono alla ricerca di risposte a esigenze concretissime?
Il rischio è sempre lo stesso: nel cercare di “valorizzare” il Sud, lo stereotipo, soprattutto culturale, fa inevitabilmente capolino, con la fatale conseguenza di lasciare per strada qualche pezzo importante. Per esempio, il cosiddetto Sud non è soltanto la fascia costiera (sicuramente più immediato oggetto di interesse, soprattutto economico), ma anche tante realtà urbane frammentate dell’entroterra, sempre meno votate alla loro originaria destinazione agricola e che si svuotano rapidissimamente delle loro energie più giovani, dirottate verso i grandi centri quando non all’estero.
Quale futuro è possibile immaginare per queste aree? Stiamo parlando di territori vastissimi che, in questo caso sì, senza una visione di lungo periodo da mettere subito in cantiere, sono destinati inesorabilmente a desertificarsi. In questo caso, non è solo in gioco una questione “economica”, ma un tessuto sociale, umano, storico e culturale da salvaguardare. Per parafrasare le parole del ministro, il Sud che emerge dalla Carta di Napoli è lo stesso se viene meno “l’altro Sud” dell’entroterra? Questo per dire che, oggi, parlare di Mezzogiorno lascia il tempo che trova. Per carità, tutte le iniziative, compresa questa, sono sicuramente meritorie e speriamo portino frutti concretissimi, oltre che interessantissimi dibattiti; ma possiamo serenamente bypassare il frasario, ormai inutile, legato alla retorica sul Sud.
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