Ho finito di leggere Il passeggero qualche giorno prima che arrivasse la notizia della morte del suo autore, Cormack McCarthy, forse il più grande scrittore contemporaneo. Perché? Dico per me, che ho letto quasi tutti i suoi libri solo dopo avere percorso d’un fiato insieme a lui La strada e che, ormai più di dieci anni fa, avevo proposto la sua lettura a un gruppo di ragazzi, insegnanti e genitori all’interno del centro di aiuto allo studio con cui collaboravo.
Che cosa c’entra McCarthy con la scuola, con la difficoltà di imparare a studiare, con la difficoltà di leggere un libro intero che molti di quei ragazzi avevano, con la loro incapacità di attenzione costante? Che cosa c’entrava con gli insegnanti di fisica o matematica, con i genitori che avevano deciso di mettersi intorno al tavolo con me che leggevo a voce alta e mi fermavo a interrogare me e loro? Ogni volta che finisco di leggere un libro con un gruppo di persone faccio sempre la stessa domanda: cosa ci consegna questo libro? Consegnare è qualcosa di più che un lasciare, è portarsi dentro un segno che abbiamo scritto insieme: io che leggo, tu che ascolti e lui che racconta. Ho trovato la risposta che uno dei genitori aveva scritto e la copio qui quasi integralmente.
“Quando ci è stato chiesto di scrivere cosa aveva lasciato in noi questo libro ho pensato che non potevo farlo: è un libro molto forte, dove tutto è buio, freddo, disperazione. Non capivo: non volevo accettare che tutto fosse così estremo. Durante la lettura pensavo continuamente che quei due avrebbero fatto meglio a farla finita, tutto era insostenibile. Anche la moglie, la madre, non ce l’aveva fatta a reggere quella feroce realtà. Però continuavo a pensarci, mi lasciava una grande domanda: perché il libro continuava ad andare avanti e non si arrendeva alla mia posizione? La storia non ha inizio né fine, siamo in un tempo già iniziato. Un padre e suo figlio camminano sulla strada di un mondo distrutto, in un clima apocalittico in cui il sole non è più sole, la terra è sconvolta, il cielo piove acqua nera, malata, l’umanità è disumana, orribile. Niente viene spiegato. Qualcosa viene evocato come sogno o immagine del pensiero e questi brevi momenti, anziché chiarire la storia, sono quasi un pericolo per il padre. E per noi. Per lui perché queste immagini sono la tentazione di non stare di fronte alla realtà terribile, ma nella quale ha il compito di portare il figlio; per noi perché vorremmo sapere: com’era il mondo prima? cosa è successo? perché? ci sarà speranza per loro? Insomma cercando in queste domande di distrarci da ciò che c’è veramente in gioco nella storia. Cosa mi ha fatto cambiare idea e mi ha fatto dire che questa strada, sia la mia del leggere che quella del padre e del figlio in cammino, valeva la pena di essere percorsa? Mi sono accorta che il mio sguardo era estraneo, era fuori dalla storia. Vedevo il dramma, il dolore, la morte, ero spettatore. I due invece, pur vedendo ciò che vedevo io, erano definiti dal loro rapporto. Il padre era fatto dello sguardo del figlio e il figlio conosceva tutta la realtà, e pertanto tutto sé stesso, dallo sguardo del padre. Questo è il fuoco che loro portano. Ho capito che anch’io sono in questo crinale vertiginoso dove tutto intorno mi seduce, come una chimera invitante, a distogliere lo sguardo da quei passi da compiere, a desistere, ad arrendermi. Che anche per me tutto è deserto spietato se non ho uno che mi guarda e mi afferma, mi dice che sono, che ci sono perché lui mi fa essere, e che io posso guardare così tutto e amare ciò che c’è. Mi scopro addirittura a dire che questo libro parla di una speranza, la sola speranza. Avere un Padre che continuamente mi chiama a guardarlo per vedere nei suoi occhi la scintilla, il fuoco che mi fa essere. Grazie al prof perché ci ha fatto vedere ciò che ha acceso la sua domanda, il suo cuore”.
Ecco perché McCarthy: anche durante la lettura le domande più frequenti erano quelle che volevano indagare il prima e il poi. Ma, come dice benissimo Elisabetta, la mamma di Pietro, Caterina e Anna che venivano al centro per studiare, McCarthy ha il potere di inchiodarti al presente, di non farti compiere fughe nel passato o nel futuro: quello che c’è in gioco nella storia è solo il presente, terribile e segnato però dal fuoco. Questa adesione totale, questa identità viva, questa celebrazione dell’istante presente, anche di quello in cui apparentemente nulla accade o quello in cui è lo stesso tempo, la stessa esistenza a rischiare la fine, ecco, questo è ciò che i libri di McCarthy ci consegnano.
È un’ascesi vera e propria, una strada contro la distrazione rispetto alla propria vita. Andrò a rileggere Il passeggero, che ingigantisce una serie di problemi e domande che già erano quelle di Elisabetta: tutto è già avvenuto, quello che vorremmo sapere o risolvere non verrà minimamente risolto, il filo della vicenda svanisce tra le mani, pagine intere rimangono nebulose e addirittura ostiche. Tutto ha l’apparenza dell’incompiuto, forse anche perché il libro non nasce solo, ma insieme a un altro, Stella maris, che uscirà in traduzione italiana solo tra qualche mese e che in qualche modo lo completerà. O forse perché, qui più che altrove, l’incompiuta, la vita e il suo battito si sbranano anche tutta l’abilità di chi scrive.
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