A tutti i livelli scolastici il tempo degli esami è finito o sta finendo. Uno stillicidio fatto di sopportazione dei colleghi esauriti più che mai, ma anche la stranezza di non vedere più alcuni alunni che per tre anni hanno mostrato quanta miseria educativa portano sulle spalle e, allo stesso tempo, quanta incapacità abbiamo avuto noi docenti a condividere, trasmettere un sapere. Quanta “personalizzazione” di insegnamento ci vorrebbe, quanta dedizione ad ogni singolo alunno sarebbe necessaria; eppure si continuano a tollerare atteggiamenti, manchevolezze senza essere entrati mai in rapporto con i ragazzi, con le famiglie.
“Ma quando finisce?”. È la frase che più va in voga nei corridoi della scuola. Un succedersi di pause, un martellamento di spazi morti senza mai entrare nel merito delle questioni. Una stanchezza legata alla solita routine delle passerelle di colleghi frustrati che non vedono l’ora, nell’interrogare gli alunni, di porsi in primo piano e mostrare il loro pensiero anziché ascoltare quel breve lavoro che diligentemente ogni alunno ha fatto. La scuola, vetrina delle proprie sfilate di pensiero, lascia perplessi. Si annotano intanto le prime “sconoscenze”: dalle “erezioni” del Vesuvio a Bologna capitale d’Italia. Si passa dall’“ateismo” di Leopardi alla Chiesa di Santa Chiara a Napoli “classico esempio di chiesa neoclassica”. Insomma, c’è da scrivere uno zibaldone sulle inesattezze espresse.
Ma fino a qui si sorride, per fortuna; nel momento in cui si passa ai docenti comincia a storcersi il muso tanto è il livore, la rabbia che viene a galla dall’animo di qualche docente. Mappe concettuali pilotate solo per far dire ai ragazzi ciò che non si ha il coraggio di dire normalmente. E vai con gli ambientalisti, i favorevoli alle provocazioni nel distruggere o rovinare opere d’arte, i pro-Lgbt e così i contrari, gli antiabortisti e i favorevoli.
Gli alunni? Ripetono meccanicamente senza un minimo di coscienza, vista anche l’età. “Loro devono sapere certe cose anche se hanno solo tredici anni, bisogna cominciare sin da piccoli”. E quindi si passa ai giudizi tra di noi: “quel collega è da evitare, quell’altro invece mi ha sorpreso positivamente. Quello addirittura la pensa così, ma come si fa, dai”. Il mercato pseudo-culturale raggiunge l’apice con argomentazioni assurde. “Me lo ha detto la prof. Ed io per farla contenta l’ho studiato. Così mi dà un voto in più”.
Competenze poche, giudizi assenti. Momenti di gloria per i docenti, di protagonismo, di “vetrinizzazione” delle vite misere e solitarie di ciascuno. L’esposizione di sé come si stesse al mare, ma senza protezione alcuna.
Davvero la scuola media è tutta qui? Può essere ancora il luogo in cui si suggerisce un metodo di studio e non uno sversamento di saperi, meglio, di nozioni? Si osservava giustamente che essere educatori implica un lavoro, una testimonianza, un mettersi in rapporto con l’interlocutore. Essere insegnanti, oggi, è più facile: basta vomitare addosso agli alunni semplici nozioni. Sorretti “finalmente” da tablet, connessioni, video Youtube già pronti si può tranquillamente evitare il dialogo, la connessione “umana”. Di sicuro, essere portatori sani di vite appassite genera in classe alunni privi di domanda, di desiderio nel conoscere, privi di “perché” o di “come si fa”. Tanto poi arriva il momento del caffè e tutto il nervosismo passa!
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