Salario minimo o “politica dei redditi”?

Il salario - auspicabilmente non minimo - passa attraverso una ristrutturazione dell'Azienda-Paese che è tratteggiata nel Pnrr

Sul salario minimo legale l’opposizione pare aver ingaggiato una battaglia abbastanza balneare: meno convinta di quanto si mostri invece ferma la maggioranza di governo nella sua contrarietà.

Al Pd come a M5S serve evidentemente una fase più “militante” di quanto sia stata quella sui diritti, che ha caratterizzato i primi nove mesi dopo l’ultimo voto. Ma il terreno del salario minimo non sembra particolarmente agevole. Perché “dem” e grillini – variamente al Governo nelle due ultime legislature – non hanno mai varato loro un provvedimento coerente – almeno sulla carta – con le attese dei loro elettorati?

Il Pd di Matteo Renzi ha preferito puntare sul Jobs Act: una riforma ambiziosa (forse troppo), ma certamente con il merito di guardare alle determinanti dei salari, cioè al mercato del lavoro. Cui il Jobs aveva dato centralità, ritirando lo Stato e dando spazio a soggetti nuovi dell’Azienda-Italia. Niente salari come “prezzi amministrati” o di legge.

Giunto a sua volta al potere, M5S si è subito dedicato allo smontaggio sistematico del Jobs Act, cui è stato sostituito tout court un “salario di Stato”: perché tale è stato nei fatti il Reddito di cittadinanza.

Nel 2023, entrambi sconfitti dal voto, i due partiti paiono voler ricominciare dagli strumenti e non dagli obiettivi. E da un neo-centralismo statale che sembra intercettare un certo spirito del tempo, ma in modo scorretto.

L’emergenza socioeconomica del momento – anzitutto per i salari – si chiama inflazione. L’emergenza socioeconomica strutturale – non solo in Italia – si chiama diseguaglianza crescente nei livelli di reddito. Su questi due fronti intrecciati un’opposizione lucida e sicura dei suoi mezzi avrebbe il diritto e forse il dovere di incalzare un Governo di centrodestra. Lo sta facendo da mesi – a fianco dei sindacati – in altri grandi Paesi europei come Francia e Gran Bretagna (qui il Labour sta costruendo una sempre più abbordabile rivincita elettorale dopo 13 anni di opposizione).

Per entrambe le emergenze la risposta ultima non può essere certo la nuova social card che il Governo ha presentato nelle ultime ore. Ma non è neppure il salario minimo: che sembra rispondere più a tattica ideologica che a reali prospettive di successo a breve/medio termine.

È probabilmente l’ora di una nuova “politica dei redditi”, ma ponendo subito attenzione a non resuscitare tout court quella per antonomasia: concepita e realizzata dal Governo Ciampi (tecnico) con il supporto di parti sociali allora molto solide nella rappresentanza dell’Azienda-Paese. Trent’anni dopo, anzitutto, la sovranità del Paese sulla propria politica economica è molto ridotta dalla governance europea. La redistribuzione congiunturale e strutturale della ricchezza è assai meno praticabile per via fiscale, mentre l’inflazione e le azioni di politica monetaria a suo contrasto sono fattori molto esterni (la situazione geopolitica e la Bce). L’attenuazione della povertà (non la sua immaginaria “abolizione”) passa prevedibilmente attraverso un maggior impegno in politiche sociali innovative: nel campo della famiglia e dei grandi servizi come education e sanità.

Il salario – auspicabilmente non minimo – passa attraverso una ristrutturazione dell’Azienda-Paese che è tratteggiata nel Pnrr. Su questo (sui contenuti) sarebbe democraticamente confortante veder duellare maggioranza e opposizione, imprese e sindacati. Non sull’ennesimo tentativo di risolvere con una norma di legge nazionale un passaggio socioeconomico globale ed epocale.

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