Secondo uno studio appena pubblicato dal ricercatore Rui Zhe Goh della Johns Hopkins University sulla rivista Pnas, il cervello elabora stimoli ambientali come suoni, voci o rumori allo stesso modo in cui elabora il silenzio. Il silenzio, dunque, anche dal punto di vista neurofisiologico, non è assenza di stimoli, ma un vero e proprio stimolo a sé stante, nella cui percezione sono coinvolti neuroni specifici, indipendenti da quelli deputati alle altre percezioni ambientali.
Anche l’assenza, pertanto, ha una sua identità, una sua fisionomia, una propria lunghezza d’onda con cui ci intercetta. Quello che non c’è più, in qualche modo c’è ancora e quello che non c’è ancora, in qualche modo c’è già. Gran parte delle sofferenze umane nascono dal non riconoscere la dignità e la presenza di ciò che apparentemente non c’è: si aspetta un amico, ma un amico c’è già; si aspetta un figlio o un amore, ma il figlio o l’amore ci sono già.
È la mente che cerca l’immagine delle cose che vorrebbe ci fossero e che s’affatica nel nulla, invece di godere la Presenza. Ed è sempre la mente ad angosciarsi per l’assenza di quelle immagini, perdendosi – di fatto – la cosa più importante dell’esistenza: il dialogo con quella Presenza.
Nella costruzione sociale di quest’ultimo secolo, l’uomo è reputato felice se riesce a possedere le cose che decide di avere e se riesce a realizzare la situazione affettiva che immagina adatta a sé stesso. Eppure, questa cosiddetta felicità è precaria, perché si basa su qualcosa che, da un momento all’altro, può venire meno.
I giovani, che come sempre sono i più acuti nel percepire il vento del tempo, lo intuiscono perfettamente e ogni volta che viene meno uno di quegli elementi che era stato giudicato necessario per essere felice, vivono un dramma, una tragedia: piangono per il vicino di banco, per il compito in classe, per la ragazzina, per il voto. Si rendono perfettamente conto che una felicità così non regge, ma sono intimamente convinti che al di là delle cose che ci sono e che ci possono essere, ci sia il nulla. Nessuno mostra loro il suono del silenzio, il suono dell’assenza, il suono della mancanza. E nessuno indica loro che quel suono è presenza da esplorare, con cui familiarizzare, da conoscere.
In fondo l’uomo è triste, l’uomo è depresso, l’uomo è frantumato, non perché percepisce il nulla, ma perché intuisce che al di là del nulla c’è l’Essere, intuisce che al di là di quello che dovrebbe rendere felice una persona, c’è molto altro. Ed è quest’altro che egli vuole, è questo altro che gli manca, è questo altro che attende. “Voglio la luna!” fa dire Camus a Caligola nel suo dialogo con Elicone. E quando la luna non c’è, il suo suono rimane, continua ad esistere e a raggiungerci.
La natura dell’uomo è questo irriducibile rapporto con una Presenza che nessun nichilismo riesce a soffocare. “Desiderio, ti ho trascinato per le strade, ti ho desolato nei campi, ti ho ubriacato nella città, ti ho ubriacato senza dissetarti, ti ho bagnato nelle notti piene di luna, ti ho portato in giro dovunque, ti ho cullato sulle onde, ho voluto addormentarti sui flutti. Desiderio, desiderio, che farti? Che vuoi dunque? Quando ti stancherai?”. Le parole delle Nourritures terrestres di André Gide rimarranno per sempre scolpite nella coscienza collettiva come la più chiara espressione della natura umana che brama l’infinito. Un uomo è davvero felice quando si svuota di tutto quello che ha e si riempie del dialogo con quel desiderio, con quell’infinito; un uomo è felice quando smette di trattenere e inizia a donare, a donarsi. Una vita realizzata non è una vita aderente all’immagine progettata, ma una vita donata, spesa, nel rapporto con quell’infinito.
Il dono è dunque l’essenza della realtà: il dono della natura e il dono delle cose, il dono degli amici e il dono dei figli, il dono dell’amore e il dono della libertà, ma – e qui sta il frutto maturo della scoperta di Zhe Goh – anche il rumore che fa l’assenza di tutte queste cose è dono. Il rumore che fa l’assenza di una natura positiva, il rumore che fa l’assenza delle cose o degli amici o dei figli, il rumore che fa l’assenza dell’amore o di una situazione vissuta senza libertà: tutto è dono e deve essere ascoltato non con i neuroni di sempre, non con la misura di sempre, ma con uno sguardo nuovo, curioso, pronto ad interpellare la Grande Presenza e a chiedere conto di dove il rumore di tutta quell’assenza ci vuole portare.
Non si tratta di far buon viso a cattivo gioco, di adattarsi, di rimpicciolire il desiderio o – peggio ancora – di costruire una morale da schiavi che argini il senso della delusione. Si tratta di allargare la ragione, di spingere fino alle estreme conseguenze il cuore, di allontanare l’ottusità con cui si fa tutto per ricominciare a guardare.
Viene in mente quella pagina di Vangelo in cui Gesù è invitato a nozze e si trova, nel bel mezzo del ricevimento, a fronteggiare l’assenza di vino. Tutti ricordano che cambiò l’acqua in vino, ma in pochi ricordano che volle che ciò fosse fatto riempiendo fino all’orlo sei giare di pietra. Il sei, nella numerologia, è il numero dell’uomo: è al sesto giorno che la Scrittura colloca la creazione dell’uomo da parte di Dio. Riempire fino all’orlo sei giare di pietra significa, dunque, portare l’umano alla sua capacità più piena, più compiuta: portare un’umanità pietrificata alla sua misura più piena. È questo che, secondo il dettato evangelico, permise a Cristo di trasformare l’acqua in qualcosa di decisivo. Ed è questa capacità della ragione, che la scienza coltiva, che la psicologia mette a fuoco, che la liturgia ridesta e che la comunità educa, a permetterci ciò che umanamente sembra impossibile: percepire, in ogni apparente silenzio, la voce di un Mistero che ci convoca a partecipare da protagonisti al grande dono della vita.
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