La richiesta di una “grande e definitiva pace fiscale” per liberare “milioni di italiani ostaggio da troppi anni dell’Agenzia delle Entrate” annunciata dal ministro Salvini è da due giorni l’argomento politico del giorno. Non potrebbe essere altrimenti, perché il tema evoca nell’immaginario collettivo la figura dell’evasore che è una categoria mitologica per decine di milioni di lavoratori dipendenti, pubblici e privati. Prima di chiedersi se c’è qualcuno che ha bisogno e magari persino diritto alla pace fiscale bisognerebbe chiedersi chi invece non la invocherà mai.
C’è un nutrito e crescente gruppo di grandi imprese italiane, holding ma non solo, che negli ultimi anni ha spostato la propria residenza fiscale fuori dall’Italia in Paesi, anche europei, che sono assimilabili a paradisi fiscali. C’è un lungo elenco di multinazionali internazionali entrate nel mercato italiano negli ultimi anni che pagano aliquote fiscali minime grazie a un sapiente uso della legislazione italiana e comunitaria spostando le sedi dove più opportuno per “migliorare la fiscalità”. In questo caso si usano strumenti inaccessibili alla piccola impresa artigiana e industriale che non può avere le competenze per sistemi complicati e che non avrà mai a disposizione le risorse, eventualmente, per litigare con il fisco nemmeno se avesse ragione. Chi fa ampio uso del nero tendenzialmente non ha problemi di “pace fiscale” a meno di esagerazioni conclamate che sono, tra l’altro, contrarie a qualsiasi buon senso e convenienza.
Fuori da questo mondo c’è un esercito di imprese, spesso incomprensibili a chi non ha mai avuto una partita Iva, che oggi si ritrova con un potere contrattuale minimo nei confronti di un fisco che invece ha molti più strumenti di quanto avesse dieci anni fa; pensiamo, per esempio, alla facilità di pignoramento del conto corrente. Il fisco italiano assume sostanzialmente che l’imprenditore sia un evasore e presume i redditi a lato di quello che viene dichiarato. È un sistema che genera cortocircuiti che possono generare casi grotteschi: imprese che non incassano crediti dallo Stato e che non hanno liquidità per pagare le imposte, errori grossolani nella stima degli utili a fronte, per esempio, di fasi di volatilità o crisi, sproporzione tra sanzione e colpa, magari del consulente, ritardo della sanzione rispetto al fatto.
Più le fasi economiche sono volatili, più aumentano i rischi di incomprensione. Pensiamo, per esempio, alla lunga fase di lockdown intermittenti oppure, più recentemente, all’esplosione dell’inflazione e dei tassi di interesse che ha interrotto una fase che durava da almeno due decenni, oppure all’esplosione della regolamentazione italiana ed europea sull’ambiente e la sicurezza. In tutti questi casi la grande impresa è infinitamente più attrezzata non solo nel rapporto con la burocrazia e il fisco o in generale con la volatilità finanziaria, ma anche nell’adempimento di richieste che sono molto meno costose che per la micro impresa. Per una micro azienda artigiana il corso anticendio può implicare chiudere l’attività per i giorni necessari.
L’80% dei contenziosi fiscali in corso riguarda importi inferiori ai 100mila euro e questa statistica si genera anche nella minore capacità delle piccola impresa di litigare efficacemente con l’Agenzia delle Entrate e, forse, anche nella consapevolezza di quest’ultima che un contenzioso con i piccoli ha più probabilità di successo di uno con i grandi.
I Governi, da sempre, si trovano meglio con la grande impresa che è più attrezzata per far fronte alle richieste della burocrazia e che è meno “volatile”. Nella percezione del regolatore la piccola impresa è un’anomalia anche se genera, tanto più dopo l’ultima fase di “ottimizzazione fiscale” delle grandi, la maggior parte delle entrate fiscali.
I limiti dell’approccio del fisco italiano hanno generato un’ampia casistica di pretese esagerate se non ingiuste che per una piccola impresa fanno la differenza tra la vita e la morte. È chiaro che, insieme alle ingiustizie, ci sono le frodi e la malafede. Il punto, però, è un altro. La domanda è se la piccola impresa sia un valore o meno e se l’approccio del fisco, pensiamo alla “presunzione sugli utili”, possa o meno generare storture. Questa è la lente con cui approcciare il problema.
Chiudiamo con un esempio di giornata: il fisco italiano sarà in grado di catturare rapidamente il recentissimo divieto europeo di pesca a strascico sui bilanci delle imprese del settore? È ipotizzabile che le grandi imprese siano meglio attrezzate per evitare incomprensioni?
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