Appena rientrato dal vertice Nato di Vilnius, il presidente Usa Joe Biden ha subito messo in agenda due incontri alla Casa Bianca: con il cardinale Matteo Zuppi, inviato speciale di Papa Francesco per la crisi ucraina e con premier israeliano Bibi Netanyahu. Due mosse in parte inattese. Con un netto profilo geopolitico, ma non prive di proiezioni sulla politica interna americana, a un anno dalle presidenziali.
Biden, secondo presidente cattolico degli Stati Uniti dopo John Kennedy, si è tenuto finora a distanza di braccio dagli sforzi incessanti del Papa e della Santa Sede per arrestare il prima possibile le ostilità in Ucraina: una linea oggettivamente distante da quella dell’appoggio Nato a Kiev contro l’aggressione russa. Ma dopo Vilnius, con la frenata Usa all’ingresso dell’Ucraina nell’Alleanza atlantica, l’atmosfera sembra cambiata. La pressione sul Volodymyr Zelenski in direzione di un cessate il fuoco è evidente e maggior ragione la Casa Bianca vuole rimarcarlo quando Zuppi, in missione nelle scorse settimane, è stato invece sostanzialmente tenuto alla porta sia a Kiev che al Cremlino.
Il presidente della Cei, d’altra parte, non è solo un alto diplomatico di complemento del Papa. È in assoluto uno dei porporati a lui più vicini ed è un nome della Chiesa affermato e visibile a livello globale. La porta della Casa Bianca viene aperta a un portavoce autorevolissimo della dottrina e della pastorale del Pontefice: sostanzialmente minoritarie presso l’episcopato Usa. Quest’ultimo è notoriamente schierato su posizioni conservatrici, anche se alcune nomine (come quelle dello stesso cardinale di Washington Wilton Gregory o del nuovo porporato californiano Robert McElroy) hanno iniziato a spostare il baricentro della Chiesa Usa. Pochi giorni fa, tra l’altro, il Papa ha creato cardinale il nunzio negli Usa, il francese Christophe Pierre. In ogni caso: Zuppi nello studio ovale segnala in misura inequivocabile un “asse” fra Biden e il Papa, peraltro già in parte costruito (non da ultimo sull’impegno dei dem Usa a favore della politica ambientale). Neppure troppo sullo sfondo resta la “resistenza” al ritorno di Trump, con il suo carico di estremismi socioculturali che Papa Francesco non ha mai fatto mistero di aborrire.
Nell’elettorato trumpiano sono peraltro storicamente grosse le fila delle Chiese evangeliche: da tempo il “competitor” più insidioso del cattolicesmo (non solo in Nord America) formalmente entro il perimetro della fede cristiana. E negli Usa “trumpiani” si è ulteriormente saldata un’intesa fra evangelici e “destra” della grande comunità ebraica Usa: oggi non più dominata da una classe dirigente (composta soprattutto di accademici, scrittori, uomini dello spettacolo e dei media) nettamente schierata con i “dem”, tipicamente “libral/radical”. Il premier israeliano, ritornato al potere lo scorso dicembre, ha più volte espresso affermato pubblicamente il favore suo sia per Trump che per gli evangelici Usa. Anche per questo è finora sempre stato tenuto fuori dalla Casa Bianca (lo era stato anche ai tempi di Obama presidente, con Biden vice): a maggior ragione in quanto firmatario assieme a Trump, nel gennaio 2020, degli “Accordi di Abramo”. La “road map” vigente sulla Palestina (che Biden per ora non ha mai voluto rottamare) prevede di fatto l’annessione dei Territori nello Stato di Israele e ha l’appoggio di un numero vasto di Stati arabi di Africa e Medio Oriente, frutto della spregiudicata diplomazia militare ed economica del premier più discusso ma anche più longevo a Gerusalemme.
Lo stesso Netanyahu è peraltro in una fase di pericoloso stallo in patria: dopo mesi di quasi-guerra civile attorno al suo controverso progetto di riforma della giustizia (Il premier stesso è sotto inchiesta per sospetto di fatti corruttivi). Anche per questo la posizione di Israele sulla crisi geopolitica rimane di sostanziale neutralità (e opacità su misura e qualità del sostegno all’uno o all’altro contendente): non da ultimo per i rapporti stretti, principalmente durante il “regno di Bibi” sia con la Russia che con la Cina. Ora la conferenza stampa congiunta nel Giardino delle Rose dovrebbe, negli intenti condivisi, rafforzare entrambi i protagonisti anzitutto sui loro “fronti interni”. Ma è inevitabile una ricaduta anche sul cuore russo-ucraino della crisi geopolitica (e sui suoi derivati: come le mosse di Iran e Arabia Saudita). Israele schierato con decisione a fianco della Nato (con tutto il peso di un primato militare, soprattutto nella cyberguerra) potrebbe agire da persuasore potente su Putin e Zelensky, recalcitranti a sedersi a un tavolo di tregua. Lo stesso che Biden ha accettato che Zuppi volasse a Washington per perorare.
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