La ‘ndrangheta, la temuta mafia calabrese, quarant’anni fa entrava nel palazzo della giustizia di Torino. Ad accendere i riflettori oggi sulla vicenda è il quotidiano La Stampa che ricorda come il bar sotto la vecchia procura di Torino fosse gestito da un mercante d’arte e da un collega francese legati appunto alla criminalità organizzata calabrese. Una stretta contiguità con alcuni pezzi della magistratura dell’epoca, aggiunge ancora La Stampa, che finì sullo sfondo dell’omicidio di Bruno Caccia, capo procuratore assassinato da una cosca il 26 giugno 1983. Quattro decenni dopo lo scenario sembra ripetersi con la notizia delle ‘ndrine che hanno messo le proprie mani sulla cooperativa sociale Liberamensa, che gestiva il bar di Palagiustizia, un luogo ritenuto perfetto per “ascoltare” e “stringere le mani” ma anche per fare affari: «Capisci – dice uno degli arrestati al boss – dodici anni dentro il Tribunale…capisci vero?».
Una vicenda che ripropone personaggi come Domenico Belfiore, vecchio boss di Moncalieri, comune del torinese, che venne condannato come mandante dell’omicidio Caccia, mentre ora soni i suoi fratelli che vengono interpellati “per una controversia nata nel corso delle trattative”, aggiunge La Stampa. A settembre del 2020, durante il primo lockdown, Rocco Pronesti, considerato un pezzo grosso delle cosche calabresi, riesce a piazzare due prestanome ai vertici della suddetta cooperativa che gestiva anche un ristorante all’interno del carcere. «Soggetti compiacenti, meri prestanome senza poteri» li definisce il gip nell’ordinanza di misura cautelare che ha portato ieri all’arresto di 4 persone.
NDRANGHETA INFILTRATA NEL BAR DEL TRIBUNALE DI TORINO: IL COINVOLGIMENTO DI SILVANA PERRONE
Nell’operazione finisce coinvolta, altro nome de La Stampa, anche Silvana Perrone, ex dirigente di Liberamensa, con profonde amicizie e parentele nel Comune di Moncalieri, sottolinea La Stampa, e a capo a sua volta di un’altra cooperativa sociale, “L’isola di Ariel” che si è occupata anche di migranti per un business milionario.
“A un certo punto – si legge sul quotidiano torinese – riceve un decreto ingiuntivo dai prestanome dei boss per presunti pagamenti arretrati non avvenuti (utenze, stipendi non corrisposti etc) e invece che seguire la tradizionale lite tributaria utilizzando gli strumenti dello Stato di diritto, Perrone (che a la Stampa non risulta al momento destinataria di contestazioni formali) si rivolge a Gaetano Belfiore, fratello del mandante dell’omicidio Caccia «richiedendo un intervento a protezione», scrive il gip”. Alla fine il bar riaprirà dopo che l’appalto è stato vinto da una società estranea a Liberamensa e ai fatti contestati, ma quel passato è maledettamente ritornato.