Luigi Bettazzi è morto nel Torinese, quasi centenario, lo scorso 16 luglio. È stato uno dei pastori più incisivi nella generazione del Concilio Vaticano II (e per molti decenni a seguire). Uomo dell’incontro, ma anche osservatore spigoloso, capace di mettere nero su bianco i guasti che vedeva in opera, senza sconti di parte. Quando i pensatori vengono trasformati in icone, semplicemente, si smette di leggerli (quei pochi che leggono). A quel punto, li si sorbisce a blocchi, o prendere o lasciare: non loro, l’interpretazione di comodo che ne è risultata prevalente. Rischia di uscirne fuori una purea ipocrita di buoni sentimenti e prassi cattive. Su ogni cosa: guerra, pace, diritti, politica, famiglia, vita. Tanto per cominciare, per Bettazzi la riflessione sul disarmo inizia durante la Guerra fredda, non alla sua conclusione. Crede nel rapporto con la non-credenza, non la squalifica a portatrice consapevole di disvalore, ma quanto tiene in sospetto l’anticlericalismo! E quanto ancor più sospetta dei “clerici novi”, di quelli che scoprono la Chiesa nemmeno come curia, ma in quanto campanile di vantaggi, relazioni calcolate da tessere.
La morte di Luigi Bettazzi ha però sin qui stimolato, almeno nel mondo laicale, una riflessione spesso pigra e condizionata. In nome di quella Chiesa, che gettava le basi per rinnovare la sua presenza nel secolo, sapendone così anche incrociare i problemi, si sono lette, da parte di alcuni esponenti politici, analisi che sembrano belle e confezionate apologie della propria storia. Paradossalmente, molta di questa autocomprensione manierata è nata tra i reduci del Partito comunista italiano, un partito in realtà che ha storicamente svolto vera funzione democratica quando agiva il conflitto, incontrava la pluralità.
La pensosa solarità dialogica di Bettazzi e la profondità ermeneutica sollecitata dal Concilio Vaticano II sono cosa assai diversa dalla piega presa da molti esponenti di quella storia politica. Dall’inizio degli anni Settanta a oggi è mancata una linea di pensiero sul potere e sul tempo. Il messaggio della Chiesa è stato plasticizzato (cioè piegato a uso e consumo: deformato), come tutti i messaggi delle agenzie di formazione dalla non del tutto esaurita grande carica aggregante. Pronto e riciclabile all’uso. Da questo punto di vista, un certo opportunismo buonista e confuso nel cavalcare il magistero di Bergoglio è perfettamente consequenziale.
Il Concilio Vaticano II, in certi echi divulgativi, rischia di sembrare all’osservatore esterno una sorta di piccola Woodstock, di vaghezza, pace e amore. In realtà, per più aspetti, è vero il contrario: fu il Concilio, dal 1962 al 1965, a presentire e vedere temi che diverranno solo dopo comuni al dibattito di massa. La cooperazione internazionale, la diversificazione degli stili di vita (che si aderisse o meno ai precetti di fede), il ruolo delle giovani generazioni nei processi della partecipazione democratica, sono temi ai quali la rappresentanza politica arriva tardissimo, dopo anni di indifferenza ai movimenti tutti, religiosi e civili.
La sinistra ci arriva intuendo la consumazione del ciclo dell’ottobre: non può più stare con Mosca, non vuole dichiarare la convenienza della transizione a Ovest. È benvenuta qualunque deviazione di percorso, soprattutto quando non impegna a stabilire preventivamente chi e cosa essere. C’è perciò il Terzo mondo, il solidarismo, l’ecologismo, il principio di non discriminazione, ma senza una carta geografica chiara per arrivare davvero a tutelare quegli ideali.
La destra fa del suo: appalta volentieri tutti quegli “altrove” alla sinistra. Capisce che così li sta già periferizzando: da temi nuovi generali a temi vecchi particolari, così passibili di condanna in nome del pragmatismo. Operazione anche questa tutta ideologica e perciò assai poco pragmatica, nonostante si porti al capo lo scranno della concretezza. Purtroppo il modo in cui è sostanzialmente passata la scomparsa di Bettazzi somiglia brutalmente alla nostra attuale forma mentis: la acritica esaltazione di pochi (guarda caso tanti autoproclamati tra i migliori, i più buoni e i più belli), l’indifferenza dei più e tuttavia ostili ai pochi, la rancorosa baruffa degli assolutamente contrari. Pronti ad allearsi agli indifferenti, beninteso, per chiudere i conti con gli antichi rivali.
Le trasformazioni nel vissuto storico della Chiesa non riguardano tuttavia né la Bolognina, con cui il Pci non riuscì a creare un’Italia più equa e plurale, né i Family Day di nuovo conio, per cui l’identità è soltanto la difesa del sé e la distruzione dell’altro. La creatività analitica delle pagine più alte di Bettazzi, perfettamente in linea con uno studio consapevole della tradizione (recuperato secondo le proprie posizioni, ma non certo per ignoranza o tornaconto), è a ben vedere tutta riassunta nel suo motto episcopale. In charitate Dei: nell’amor di Dio, che non è la filantropia benefica dei clubs; in patientia Christi: che è l’empatia e la conoscenza della sofferenza, non l’immolazione che si annichilisce e dissipa.
Forse proprio su questo dovevamo ragionare davvero: come creare relazioni umane più leali, come diffondere senso di speranza, possibilità e riscatto. Non abbiamo colto la palla al balzo: abbiamo parlato piuttosto di Putin o delle Ong, del no ai migranti o del sì all’ambiente. È che questo “sì, sì” e “no, no” non ha quasi più nulla di evangelico (Matteo 5, 17-37).
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