In attesa di ragguagliarci sul menù della prima colazione italiana consumata da Patrick Zaki, la versione on-line de La Repubblica domenica sera apriva la homepage con un articolo di approfondimento sulla guerra dal titolo decisamente confortante: Nessuno ha aperto la breccia, l’errore della controffensiva ucraina (e della Nato). Tradotto, stiamo armando dei deficienti. E, soprattutto, facendoci dettare l’agenda di politica estera europea da deficienti ancora peggiori. Nell’accezione etimologico-strategica del termine. Perché diciamo che la questione mostra un livello di gravità vagamente superiore al dimenticarsi di salare l’acqua della pasta.
Di fatto, l’Europa sta polverizzando ogni residuo rapporto diplomatico con la Russia per nulla, stante una controffensiva che sembra organizzata dalle Sturmtruppen. Un grande europeo come Rainer Maria Rilke scrisse che il passato è un morto senza cadavere. Non lascia segni. Soprattutto, tende a non lasciare macchie nella memoria. Ci pensa il grafico, in compenso.
La guerra in Ucraina, piaccia o meno, è null’altro che una strategia di lotta alla dissonanza fiscale e monetaria Usa. Con altri mezzi. E andrà sempre peggio. Perché nonostante l’America democratica di Joe Biden abbia già fatto ricorso con il badile alle spese per difesa dopo anni di austerity, di fatto attivando in grande stile il moltiplicatore del Pil noto come warfare, ecco che l’insostenibilità del modello tutto leverage e QE sistemico ha presentato il conto. Già oggi, le spese annuali di interessi sul debito federale hanno messo la freccia come Vittorio Gassman ne Il sorpasso. E ora? Con ogni probabilità, partirà la rincorsa. Quindi, ecco la versione aggiornata della più classica spirale tra prezzi e salari. Quella fra debito e cannoni.
D’altronde, basta dare un’occhiata a quest’altro grafico per capire come la crisi ucraina abbia fatto miracoli per Lockheed, un uptrend del titolo che è tutto un programma. Non a caso, tutto sembra impazzito come una maionese.
Basta cercare di seguire gli avvenimenti quotidiani che arrivano dai fronti del conflitto e della diplomazia: entropia totale, una rincorsa al caos nella speranza che divenga demiurgo. Francesco De Gregori cantava che la guerra è bella anche se fa male. Probabilmente, peccando di pessimismo. La guerra non è solo bella, paradossalmente rischia di essere “necessaria” nella sua versione permanente. Tanto, a morire è quasi sempre chi non conosce nemmeno il motivo. E che si presta involontariamente a narrazioni di comodo, omissioni obbligate, forzature strategiche e bugie umanitarie. La Cina, dal canto suo, certamente non disdegna un regime di deterrenza permanente. La Russia, poi, avanti di questo passo riuscirà nel miracolo di tornare al tavolo di chi tratta e con argomenti convincenti, nonostante l’armamentario di sanzioni autolesionistiche dell’Ue.
E attenzione, perché nel breve lasso di tempo di una mezz’ora, sempre domenica sera l’homepage de La Repubblica si era aggiornata. E in attesa dello scrutinio spagnolo, la prima notizia era diventata questa: Cina, l’Italia cambia rotta: abbandona la Via della seta e chiede aiuto agli Usa. Ora, alla luce di questa notizia, rileggete il post. E se siete così fortunati da avere il dono della fede, pregate il vostro Dio. Perché ci siamo cascati con tutte le scarpe. Ma, ovviamente, ci vorrà tempo prima che politica e media siano costretti ad ammetterlo. E questo, a livello bipartisan. Perché se La Repubblica si butta sul tattico per difendere l’ormai indifendibile brama di militarismo di Zelensky – scaricato persino da guerrafondai doc come i britannici -, Il Foglio addirittura si lanciava in un esame di nazismo vero e presunto delle milizie ucraine, utilizzando la stecca dell’olio del ridicolo per non ammettere di aver sparso veleno per mesi e mesi. E per conto terzi.
Perché quando tutte le notizie sono uguali, il giornalismo lascia spazio al marketing. O alla pubblicità. L’informazione è altra cosa. Informare significa raccontare la realtà per quella che è. Anche quando scomoda. E sgradevole. Come questa, ad esempio.
Il prezzo del riso a livello mondiale, silenziosamente, ha toccato massimi che non vedeva da anni. Molti anni. E il Financial Times fa notare come le proiezioni rispetto alle scorte globali segnalino, entro sei mesi, un calo ai minimi da 6 anni. Nemmeno a dirlo, altro boost per i prezzi. Il tutto mentre la Turchia ha inviato un segnale molto chiaro al mondo: senza un accordo sul grano attivo e accettato dalla Russia, noi ci chiamiamo fuori. Tradotto, più che probabile fiammata dei prezzi agricoli. A brevissimo. Un toccasana per l’inflazione, ancora oggi allegra. Nonostante un ciclo rialzista dei tassi con pochi precedenti. E con poco margine ulteriore di manovra, poiché il sistema finanziario appare già oggi al limite.
Se il mondo rischia di avere fame, la finanza ha sete di liquidità. Sempre più inestinguibile. Ma se tutto questo non pare trovare spazio sui giornali, ecco che la notizia peggiore risulta totalmente ignorata. Due giorni fa, quando appunto i prezzi del riso hanno toccato quei massimi inquietanti, il Governo indiano ha comunicato un bando sulla sua esportazione. Proprio per cercare di tamponare l’inflazione a livello interno, Nuova Delhi ha bloccato l’export di riso bianco non basmati. E se le piogge torrenziali che hanno colpito i raccolti hanno reso la decisione del Governo immediatamente operativa (e a tempo indeterminato), giova ricordare come una mossa così drastica sia a rischio di ulteriore escalation. L’India aveva infatti imposto un duty del 20% sul commercio estero di riso lo scorso settembre, al fine di limitare la domanda esterna aumentata per le condizioni climatiche estreme dell’estate. Risultato? Zero. E signori, l’India è il maggior esportatore di riso al mondo, visto che fanno capo a Nuova Delhi il 40% delle spedizioni globali. E il non-basmati bianco pesa a sua volta per il 25% del totale. Questo in un contesto mondiale di fame crescente, visto che al 30 giugno scorso e su base annua, le esportazioni indiane di riso erano salite del 35%. Un trend che solo nel mese di giugno scorso aveva contribuito a un aumento dei prezzi interni del 3%. Questo con i cittadini indiani che, su base annua, sempre a quella data vedevano l’aumento del prezzo arrivare a quota 11,5%. Inutile dire quale sia la media del salario da quelle parti. E quale parte del leone reciti il riso nella dieta della stragrande maggioranza della popolazione. Esattamente come in Cina. Paese che ha come indicatore di pericolo nella tenuta sociale due beni di consumo alimentare: il riso, appunto e la carne di maiale, talmente efficace come proxy da ispirare la cosiddetta porkflation.
Avete idea, stante i magheggi delle Banche centrali sui tassi ormai all‘endgame, quale autunno/inverno macro ci attenda, vero?
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