Il Fondo monetario internazionale, con le sue previsioni aggiornate sull’andamento del Pil, conferma il buon momento dell’economia italiana, che quest’anno con un +1,1% farà meglio di Francia (+0,8%), Germania (-0,3%) e della media dell’Eurozona (+0,8%). Guardando, però, i dati da una diversa prospettiva, le cose sembrano cambiare.
Come spiega Gustavo Piga, ordinario di Economia politica nell’Università di Roma Tor Vergata, infatti, «se consideriamo il periodo 2020-23, la crescita globale è prevista in crescita del 9,4%, quella cinese del 18,8%, quella degli Usa del 6,4%, quella dell’Eurozona del 3,3%, mentre quella italiana del 2,8%. Si tratta di un quadro simile a quello emerso con l’Economic Outlook dell’Ocse con un’unica novità: la conferma che la Germania è il grande malato occidentale. Al di là di questo, mi sembra che nel documento del Fmi ci siano almeno due elementi che val la pena evidenziare».
Di che cosa si tratta?
Il primo è che sia nel 2023 che nel 2024 il mondo economicamente avanzato crescerà meno della metà dei cosiddetti Paesi emergenti. Oltre a rappresentare un segnale importante nella riduzione delle disuguaglianze e nella lotta contro la povertà a livello globale, si tratta di un messaggio politico sulla perdita di rilevanza del G7 e su quella maggiore che andrà strategicamente data al G20.
Qual è, invece, il secondo elemento da evidenziare?
In un momento di così grave difficoltà, con sfide energetiche e climatiche importanti a livello globale, in cui gli investimenti risultano fondamentali per le future generazioni, colpisce che il Fmi ritenga che la priorità di politica economica sia rappresentata dal contrasto all’inflazione tramite la riduzione della domanda aggregata. Leggere questo invece che il perseguimento della sostenibilità per il tramite degli investimenti pubblici desta qualche timore e dà anche l’idea di quanto queste organizzazioni abbiano una visione di breve periodo rispetto a quello di cui il mondo necessita. Con questo non voglio dire che il Fmi sbagli nel ritenere necessario combattere l’inflazione, in particolare in un mondo in cui i sindacati sembrano spariti rispetto agli anni ’70 e non proteggono più con lotte per l’indicizzazione dei salari il potere d’acquisto dei loro associati.
Le parole sul contrasto all’inflazione del Fmi sembrano essere, però, un assist al rialzo dei tassi da parte delle Banche centrali, penso in particolare alla Bce.
La Bce ha commesso alcuni errori all’epoca di Trichet, dopo la crisi del 2008. Da allora l’ordine di grandezza dei problemi che può generare una sua mossa sbagliata di politica monetaria è infinitamente più piccolo rispetto a quello dovuto ai costanti errori di politica fiscale. La questione chiave è che anche se i tassi fossero più bassi, la fiducia complessiva non si restaurerebbe. Non basterebbe tagliarli di mezzo punto per veder crescere la richiesta di prestiti e il numero di investimenti produttivi: occorre ottimismo sul futuro. E l’unico vero strumento che da sempre può rimuovere le nubi di pessimismo è la politica fiscale. Questa cosa ce l’hanno ben presente negli Stati Uniti, mentre in Europa non lo è mai stata dal 2011 in poi quando è stato introdotto il Fiscal compact e questo ci dovrebbe preoccupare.
Anche perché rischia di alimentare il cosiddetto populismo?
Dopo il voto in Spagna, possiamo dire che l’indice di potenziale populismo in Europa appare in discesa, ma, come si è visto nelle elezioni in Turingia, è molto alto in un Paese che economicamente sta crollando come la Germania. Considerando che, stando alle previsioni del Fmi, la Spagna sta crescendo più dell’Italia, sembra proprio che l’antidoto al populismo sia rappresentato dalla crescita economica.
Concentriamoci sul dato dell’Italia. Cosa pensa delle previsioni di crescita che ci danno al +1,1% quest’anno e al +0,9% il prossimo?
Non possiamo accontentarci di questa crescita mediocre e, soprattutto, da questi dati sembra prevalere un forte scetticismo sulla capacità che il Pnrr possa aiutare il nostro Paese a mettersi in sicurezza anche in termini di rapporto debito/Pil. Il punto è che non si possono fare le nozze coi fichi secchi, non è possibile chiedere alla Pubblica amministrazione di salvare l’economia senza fornirgli le necessarie munizioni.
Cosa intende dire?
Che si continua a non investire nella capacità della Pa, in tutte le amministrazioni locali prevale la mancanza di conoscenza sul codice degli appalti, su come fare bene e rapidamente le gare. Ci sarebbe bisogno di persone brave che nel settore privato non mancano: è scandaloso che il settore pubblico, in un momento come questo, non sia in grado di attrarre dal privato le professionalità di cui c’è bisogno per ottenere dei numeri sulla crescita ben diversi da quelli che stiamo commentando.
Servirebbero risorse e, vedendo anche il dibattito su quella che sarà la Nadef di settembre, sembra proprio che non ci siano margini…
Il ministro Giorgetti ha avviato una spending review da 800 milioni per il 2023 e immagino che, anche se non sappiamo quali risultati concreti abbia portato quest’anno, la troveremo riproposta per il 2024. Questo quando è noto che solamente nella galassia degli appalti, che rappresenta il 30% della spesa totale, ci sono sprechi di prezzo o di quantità tra i 40 e i 60 miliardi di euro, la maggior parte dovuti a incompetenza, non a corruzione. È chiaro, allora, che non ci sono margini per la Nadef e la Legge di bilancio se mancano iniziative per cercare di rendere migliori le nostre stazioni appaltanti. E questo ha poi un suo peso in sede europea.
Da che punto di vista?
L’Ue non può negarci più margini di manovra se dimostriamo di saper spendere bene. La nostra incapacità sul Pnrr si riverbera, però, sulla nostra capacità di contrattare una riforma delle regole fiscali europee che crei spazi per gli investimenti pubblici. C’è molto da fare, quindi, sia a livello italiano che Ue e trovo interessante la proposta di Draghi di centralizzare la politica fiscale in Europa, anche se far passare questo processo da un passaggio referendario è rischioso e richiede tempo, mentre ora abbiamo bisogno di soluzioni di breve periodo e certamente non ne vediamo una per mancanza di leadership. Manca leadership in Francia, in Germania, in Italia, mentre in altri Paesi ci si rende conto delle sfide e ci si attrezza: basta pensare all’immenso piano statunitense Ira, che parla di crescita e presuppone un deficit per finanziarla intorno all’8-10% del Pil fino al 2030, mentre l’Eurozona si limita sempre a pensare al 3%, per rendersi conto di quale sia la differenza di ambizioni e quindi di risultati raggiungibili a livello politico, ancor prima che economico, tra le due sponde dell’Atlantico.
(Lorenzo Torrisi)
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