Una buona abitudine, per chi non disperde il bisogno di conoscere e conoscersi, è quella – quando ci succede di allontanarci da casa, anche solo per pochi giorni – di “salire sulle spalle dei giganti” e guardare cose e persone nuove con gli occhi di uno scrittore. La buona letteratura permette di entrare in punta di piedi in casa d’altri non solo con il dovuto rispetto, ma acquisendo la sensibilità di chi quelle colline, quei cieli, quelle case e quegli sguardi li ha conquistati col tempo e il silenzio che spesso non abbiamo. Adesso che arrivano i meritati giorni di riposo può diventare rivoluzionario usare quest’arma dolce ed efficace e affacciarci a scoperte inaspettate; lo faccio da qualche anno ad ogni viaggio, per breve che sia: è come affidarmi ad una guida amorevole capace di aprirmi occhi (e spesso anche naso e bocca) assaporando gusti e sapori nuovi. È un esercizio di docilità paziente che consente di amare e quindi scoprire e conoscere.
La casa di pietra (Add Editore, 2012) di Anthony Shadid è la storia dell’autore che decide di fare i conti con il proprio passato e tornare a immergersi negli spazi dilatati di quella cultura del Medio Oriente che una volta sfiorata penetra in fondo all’anima e non se ne va più. Anthony Shadid, statunitense di origini libanesi, è stato corrispondente in queste terre intense e tribolate per diverse testate: Washington Post, Boston Globe e New York Times, ha vinto il Pulitzer per il giornalismo nel 2004 e nel 2010, è morto nel 2012 a 46 anni e con questo libro si mette sulle tracce della storia di famiglia, da sempre stanziata nella piana meridionale del Libano che confina con Siria e (in tempi più recenti) con Israele, destino che s’intreccia con le pagine crudeli di quella storia che spazza via imperi millenari con formule coloniali geometriche e che quando toglie il disturbo apre le porte a nuove guerre.
La famiglia di Shadid nei primi anni del novecento raggiunge una discreta fortuna e il bisnonno costruisce appunto la casa di pietra, sinonimo di un benessere acquisito. Quando l’impero ottomano si sbriciola e si alternano le scorribande dei ribelli a quelle dei francesi, per gli abitanti di Marjayoun la via della speranza è al di là dell’oceano e la famiglia – insieme a centinaia di migliaia di altre – pezzo dopo pezzo si trasferisce negli Stati Uniti.
Shadid dopo quasi un secolo ritorna a Marjayoun: prende un anno sabbatico e si butta nell’avventura improbabile di risistemare la vecchia casa di famiglia. Perché? È un giornalista importante, un cittadino americano, ha successo, perché dare spazio ad un sentimento indefinito, a qualcosa che bussa da dentro e non lascia in pace?
C’è un bisogno carsico di rimpossessarsi di qualcosa che è andato perduto. Non sa bene nemmeno lui il perché, perché tornare, perché imbarcarsi in quell’avventura a tratti comica dei tempi e dei modi tipici libanesi per cui c’è sempre un domani in cui fare un certo tipo di lavoro, perché mettersi alle prese con quella storia scomoda e ingombrante sua e di un Paese sempre più allo sbando? “Era come una delle sorelle di Cechov che sognano Mosca, alla ricerca di un posto che potesse contenere il suo grande desiderio, ma senza mai trovare ciò che non era mai stato o ciò che lui immaginava … avevo paura che, come Assad, non avrei mai trovato casa, né nell’Oklahoma, né in Maryland, né a Marjayoun”.
A Marjayoun, dove si svolge il romanzo di Shadid, in questa piana fertile a pochissimi chilometri da Israele, dove (nessuno più lo racconta ormai) non è infrequente il lancio di missili, dove c’è un presidio permanente dell’Unifil a sostegno un equilibrio troppo precario, dove ci sono centinaia di migliaia di profughi siriani ancora accampati in tende, in un Paese stritolato da una delle crisi economiche più drammatiche del mondo che non fa altro che ingrossare il fiume della diaspora libanese, una Ong italiana nei giorni scorsi ha completato e aperto un centro socioeducativo chiamato Fadaii, che in arabo significa “il mio universo”, uno spazio – progettato gratuitamente da Mario Botta – che è molto di più che una splendida costruzione: è l’affermazione di una speranza possibile per chi vive in questa terra e, in sintonia con Shadid che avrebbe amato questa scommessa, anche il Fadaii è una casa di pietra.
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