Come ampiamente previsto eccoci con le scontate e preconcette polemiche per il progressivo stop al Reddito di cittadinanza. Premesso che era uno dei punti-cardine del programma di governo e che quindi la Meloni sta solo attuandolo, il problema è da tempo di attualità, visto che cambiano i nomi ma non la sostanza: prima il Rei (Reddito di inclusione) poi il Sia (Sostegno per l’inclusione attiva) anticiparono il generalista Rdc fortemente voluto dal M5s.
Chi ha seguito la tematica sa benissimo che – al di là delle sparate propagandistiche o dei programmi auto-celebrativi di “abolizione della povertà” – c’è la desolante realtà di uno strato sociale che in parte lavora in nero e si adatta al suo ruolo furbescamente o per necessità, oppure che semplicemente non ha voglia o non può lavorare.
Realtà umane condizionate da abitudini, contesto, ignoranza, provenienza familiare, mancanza di spirito competitivo e più o meno gravi gap culturali e psicologici. Temi che andrebbero risolti ben prima di puntare ad un lavoro e che troppo spesso restano latenti o sconosciuti, così come spesso ci sono obiettivi problemi fisici che limitano le capacità di accedere a un lavoro.
Posto che la gran parte dei percettori del Rdc in questi anni non ha comunque ricevuto i teorici massimali di legge (oltre mille euro per nucleo familiare), si è assistito alla distribuzione sostanzialmente a pioggia e particolarmente in alcune zone del Paese (vedi il napoletano, che da solo “pesa” come metà Italia settentrionale) di miriade di piccole somme mensili insufficienti per campare, ma abbastanza per “arrotondare”, senza però risolvere il problema lavorativo.
Il Rdc è stato insomma una mancia e non una soluzione; d’altronde o si decide di abbandonare una parte della popolazione soprattutto nel Sud e nelle periferie urbane con poche reali possibilità di lavoro, oppure (come è avvenuto) le si passa un piccolo mensile che permetta di tacitarla e lusingarla politicamente, offrendo una sorta di obolo sociale che viene poi comunque inserito nel circuito economico dei consumi primari.
Un problema che era rimasto per qualche mese sottotraccia, ma che è esploso ora all’invio agli ex beneficiati di migliaia di freddi sms con l’annuncio del temuto progressivo “stop” ai contributi.
Scontate le polemiche così come le difese d’ufficio governative nel voler dividere tra “poveri” e “nullafacenti”. Resta il fatto che il problema si sposta, ma non si risolve.
Di buono c’è stato che teoricamente i percettori del reddito per lo meno hanno (o avrebbero dovuto) incontrare qualcuno per verificare la loro situazione ed imparare almeno a stendere un proprio curriculum professionale.
A parte che per sé stessi, gli ormai ex navigator non hanno peraltro quasi mai trovato posti di lavoro ai (pochi) “collocabili” (e d’altronde non era questo era il loro compito) ma, almeno quelli che hanno lavorato con criterio, hanno piuttosto spiegato ai “convocati” come avrebbero potuto tentare una ricerca. Sembra poco, ma visto il loro livello generale è già molto.
Il fatto è che lavori veri, stabilizzanti e decorosamente pagati è difficile trovarli perché richiedono qualifiche, specializzazioni, mobilità e soprattutto volontà di impegno nel tempo, ovvero caratteristiche che mancavano alla gran parte dei richiedenti il Rdc, che in molti casi risultavano poco al di sopra del livello minimo di alfabetizzazione.
Senza dimenticare la grande platea degli immigrati, le cui domande di reddito erano state presentate (ed ottenute) tramite i patronati, ma sovente non dicendo la verità. Persone che avevano auto-dichiarato di essere in Italia da un decennio (circostanza indispensabile per ottenere il sussidio, e spesso del tutto falsa) ma che comunque il reddito l’hanno percepito lo stesso, perché tutto si basava appunto su una “auto-dichiarazione” che spesso i dichiaranti neppure capivano non parlando l’italiano.
Navigator diventati più assistenti sociali, dunque, che veri tecnici del lavoro e comunque all’interno di un riferimento normativo contraddittorio e con situazioni regionali assurde che hanno permesso abusi solo in parte emersi dai controlli.
Di fatto ogni Regione è andata per conto suo – sostanzialmente in un caos generale –, mancando direttive unitarie e tempi obbligatori. D’altronde il lavoro è materia di competenza prevalentemente regionale e quindi ci si è trovati di fronte a scenari, meccanismi e organici spesso molto differenti da un territorio all’altro.
Tutto questo con il paradosso che i pagamenti dell’assegno erano poi in capo all’Inps (con il vertice feudo del M5s) messo ora sotto accusa con minacce di inchieste parlamentari. “Un ricatto”, tuona la sinistra.
È il funerale annunciato, insomma, di una legge fallimentare in termini di recupero di veri nuovi posti di lavoro, ma utile e a volte indispensabile come provvedimento-tampone ai fini sociali, con ora i dubbi sul futuro degli assistiti che restano con il cerino (bruciato) in mano.
Al netto delle polemiche, infatti, adesso per loro che succederà? Sfoltiti i ranghi, da settembre dovrebbe partire l’“Assegno di supporto alla formazione e al lavoro” (max 350 euro al mese), definizione nuova per problemi antichi. Il tutto con un maggiore coinvolgimento dei comuni, che peraltro già lamentano di essere senza soldi e senza personale. Nulla di nuovo, insomma; il seguito alla prossima puntata.
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