Intelligenza artificiale, l’”umanità” che manca

L'intelligenza artificiale è la moda del momento. L'opinione pubblica la teme perché ritiene che possa essere sostitutiva dell'uomo. Ma può essere davvero così?

L’intelligenza artificiale è la moda del momento. Come spesso accade nei meccanismi di consumo – è già successo con i dispositivi di riproduzione audio, con i telefoni e con gli smartphone – più una realtà tecnologica entra nell’uso comune, più chi investe in quel prodotto riceve feedback utili per perfezionarlo, migliorarlo, portarlo allo stadio successivo. E lo stadio successivo, favoleggiato e temuto nel settore dell’AI, si chiama Agi, Intelligenza artificiale generale. Una sorta di super intelligenza capace di capire, imparare e svolgere tutti i compiti di un essere umano, al punto da poter un giorno ritenere l’uomo stesso un ingombro e procedere alla sua sostituzione.

Lo scenario è certamente fantascientifico, ma è difficile ipotizzare un universo che non conosciamo e che già oggi rivela aspetti inquietanti. Potrebbe infatti essere sfuggito al grande pubblico il fatto che, grazie a prodotti molto meno sviluppati di un Agi, tantissimi giovani appartenenti alla Gen Alpha interagiscono attivamente con padre Pio o Carlo Acutis su prega.org, si sfidano in videogiochi su Roblox con l’obiettivo di imitare al meglio la celebrazione eucaristica, impersonano santi e beati alle prese con i problemi del proprio tempo.

Qualcuno potrebbe ipotizzare che queste siano nuove forme di evangelizzazione; a vederle da vicino sembrano più ossessioni, retaggi di un mondo che non c’è più, adesione ad una narrazione mitica della fede che, come spesso accade, non cambia la vita.

L’incrocio tra metaverso e intelligenza artificiale, insomma, genera scenarvi completamente inediti e allarga inesorabilmente sia lo spazio tra reale e digitale, sia quello fra generazioni, al punto che paradossalmente quello che sta diventando sempre più impossibile è comunicare.

La comunicazione oggi è una guerra di informazioni, una lotta tra dati, statistiche e affermazioni che non si gioca in nome della verità, ma nel tentativo di affermare di volta in volta una visione ideologica del mondo. La vera comunicazione, al contrario, è relazione, è fiducia, è paziente intreccio di vissuti, domande e desideri. Spesso tra adulti, tra marito e moglie, tra genitori e figli, tra amici, ci si informa, ci si rapporta con una serie di contenuti da trasmettere o da contestare. Comunicare, invece, significa uscire da una chiacchierata con tuo figlio con un cambiamento addosso. E lo stesso vale dopo un incontro, dopo una cena, dopo una vacanza: quel rapporto è veramente avvenuto se ti ha cambiato, se ha spostato il tuo modo di stare davanti alla realtà.

Le informazioni non spostano nulla, la comunicazione di sé – anche a scuola – cambia tutto. La domanda da porsi rispetto alla tecnologia, allora, è molto più radicale: potrà mai essere in grado l’intelligenza artificiale di comunicare qualcosa? Potrà mai andare oltre l’orizzonte informativo? Certamente dovrebbe essere munita di coscienza, ma come si sviluppa – come si alimenta – la coscienza?

Ognuno di noi cresce dentro un legame e impara o per stupore o per dolore. Se all’uomo mancasse un legame in cui specchiarsi e la capacità di stupirsi, se all’uomo mancasse l’esperienza del dolore, ciò che rimarrebbe sarebbe qualcosa ai limiti dell’umano, un grumo di capricci e piaceri desideroso solo di annientarsi e di far sparire sé stesso. Al contrario, se un qualunque strumento tecnologico fosse in grado di patire l’esclusione, di sentirsi stigmatizzato, di non sapere come esprimere quel che porta dentro, lì si aprirebbe uno scenario completamente nuovo.

È paradossale: questo nostro secolo fugge, escogita continue vie di fuga, proprio da quelle dimensioni dell’esistenza che rendono il vivere qualcosa di umano, che trasformano il tempo vissuto su questa terra in una sorpresa senza precedenti. L’intelligenza artificiale potrà mai provare la solitudine, la paura di non essere accettata, la rabbia per un’ingiustizia, il pianto rotto in gola per un desiderio disatteso? Ma non è proprio questo che vorremmo non sentire, che vorremmo evitare ai nostri figli, che cerchiamo di evadere con i discorsi perfetti, con il potere, con il denaro, le vacanze, la lussuria? Quando abbiamo cominciato a temere così tanto di essere umani? Senza quello che siamo, senza l’umano, tutti possiamo essere sostituiti. Ma proprio grazie a quel pezzo di umanità che stiamo vivendo, tutti possiamo fare la differenza.

L’intelligenza artificiale non deve spaventare finché restiamo umani, finché coltiviamo la nostra consapevolezza, il nostro essere-nel-mondo. Certo, questa del dolore e dello stupore potrebbe rivelarsi una mera teoria, una congettura avanzata in cerca di uno spunto dialettico contro lo spirito dei tempi. Se così fosse l’umanità non sarebbe un elemento decisivo. E bisognerebbe essere molto masochisti a stimare l’umano, a percepirne la grandezza e la tragicità. Figurarsi poi a prenderlo su di sé, assumerlo fino in fondo, attraversarlo tutto, amarlo. Bisognerebbe essere folli. Oppure, in fondo, semplicemente innamorati.

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