Il Governo va in vacanza sparando le ultime cartucce dell’ottimismo auto-celebrativo: la delega fiscale è la più grande riforma in mezzo secolo, ha sentenziato Giorgia Meloni; solo che se ne capirà la portata concreta tra un paio d’anni, intanto è già chiaro che sarà costosa e mancano le risorse non solo per la mitica flat tax, ma persino per eliminare un’aliquota contributiva. Lo dice con gran sincerità il viceministro Maurizio Leo che sta lavorando al rompicapo fiscale. Intanto oggi l’ultimo Consiglio dei ministri prevede un fritto misto dall’alto valore sociale come i taxi per gli sballati delle discoteche: lo dice, forse tra il serio e il faceto, Matteo Salvini che si occupa anche di aumentare gli stipendi per la società del Ponte. Sia chiaro è sempre un bene mandare la gente in vacanza con auguri di un meritato riposo.Ancor più quando si prevede una difficile ripresa.
I dati sulla congiuntura economica sono preoccupanti comunque li si legga. Non solo perché una riduzione del Pil dello 0,3% nel secondo trimestre è una frenata più forte del previsto, ma perché tutti i segnali dicono che la curva si è appiattita e ora comincia a scendere. L’allarme viene dalla manifattura che ha tirato a più non posso per oltre un anno, ma persino dal turismo che una certa propaganda dipinge come “il petrolio nazionale” anche se l’Italia è solo terza in Europa dopo Francia e Grecia, insidiata non solo dalla Spagna, ma anche dalla Turchia. In ogni caso ci sono primi sintomi di difficoltà: la domanda è scesa del 30% per effetto dell’inflazione, delle turbolenze climatiche, dei disservizi e di vere e proprio speculazioni (si pensi ai costi per raggiungere la Sardegna)
I dati dell’Istat sul secondo trimestre non possono essere liquidati come conseguenza di fattori casuali, le aziende sono in posizione di attesa: con un aumento così rapido degli interessi non c’è nessun vantaggio nel chiedere il denaro in prestito. L’inflazione taglia i salari, ma mette a repentaglio anche i profitti perché con una domanda in ritirata solo difendere il mark-up può rivelarsi controproducente. Aspettiamo le prime stime sui saldi estivi per capire meglio l’atteggiamento dei consumatori, ma sembra chiaro che, dopo essere tornati a spendere una volta superata la pandemia, oggi preferiscono mettersi al riparo. Anche perché si stanno esaurendo i sostegni che hanno dato il contributo più sostanzioso alla domanda interna: il superbonus edilizio e il Reddito di cittadinanza. Le proteste, per quanto possano essere manipolate, sono spie evidenti che siamo entrati in una fase di aspettative decrescenti, come direbbero gli economisti. E non potranno essere risollevate aumentando la spesa pubblica in deficit, com’è avvenuto negli anni scorsi. I conti potranno cambiare, ma è certo che se non si rimette in modo la produzione cambieranno solo in peggio.
Il Sole 24 Ore ha pubblicato ieri una prima stima di quanto serve. Il prossimo mese bisognerà stilare la Nadef (Nota di aggiornamento al documento di economia e finanza) che conterrà la cornice numerica per la Legge di bilancio: ebbene bisognerà trovare tra i 25 e i 30 miliardi di euro. Ecco la lista della spesa. Sei miliardi vanno accantonati per le spese obbligatorie chiamate anche politiche invariate; la stima viene dalla Corte dei Conti. Nove miliardi serviranno per ridurre il cuneo fiscale ai dipendenti con redditi lordi fino a 35 mila euro, il calcolo si basa su quel che è stata stanziato l’anno scorso. Il taglio dell’Irpef previsto dalla delega fiscale costa circa 4 miliardi, più o meno quanto serve per i contratti degli statali. Prorogare le tassazioni agevolate per premi di produttività e fringe benefit, la misura che ha sostituito la flat tax incrementale per i dipendenti, richiede un paio di miliardi, più o meno quanto serve per avviare i primi lavori del Ponte sullo stretto il cui costo finale è previsto, per il momento, in 13 miliardi di euro. E gli enti locali? Comuni e province si agitano: i primi vogliono replicare il fondo per gli enti in crisi, le seconde vogliono tornare in vita con elezioni dirette come una volta. Ma nemmeno questi pasti sono gratis.
L’elenco del Sole è un’approssimazione per difetto, ma già così fa tremate i polsi a Giancarlo Giorgetti che non smette di lanciare appelli alla prudenza e alla responsabilità. Con i partiti che scaldano i motori per la campagna elettorale, sarà un profeta che predica nel deserto o meglio una voce ragionevole soffocata dalla cacofonia demagogica? A complicare il tutto c’è la conferma che il boom del 2022 è stato un colpo di molla, e, alla fin fine, nemmeno il più eclatante.
Se prendiamo il Pil in termini reali, fatto 100 il livello del 2008, l’Italia resta a quota 95, cioè l’economia è più piccola rispetto a quella di quindici anni fa. La Spagna e il Portogallo hanno più che recuperato, per non parlare della Germania che, nonostante la mini recessione attuale, è superiore del 13% rispetto al 2008, quando è scoppiata la grande crisi finanziaria. Il dinamismo del quale tanto si è parlato non è propaganda, ma va visto con uno sguardo lungo. Nel 2020 l’Italia era scesa a quota 78, più o meno come la Spagna che, però, è salita a livello 105.
Questi dati mettono tutto in una prospettiva diversa, e invitano non solo alla prudenza, ma alla sobrietà di giudizio. Molto, moltissimo resta da fare, per questo il Pnrr è un’occasione eccezionale. Mancarla vuol dire condannarsi a un ineluttabile ristagno, seguito, come sempre nella storia, da un impoverimento della società.
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