In ogni assedio della storia vi sono due piani narrativi: quello degli assediati, quasi sempre posti nella più totale disperazione di salvarsi, e quello dell’esercito di soccorso, libero di muoversi, fiducioso nella propria forza, separati da una terribile incomunicabilità. Raramente gli assediati riescono a comunicare l’urgenza della propria situazione ai soccorritori, mentre questi non riescono a incoraggiare gli assediati a resistere un giorno in più, forse anche solo qualche ora.
A Vienna come nel “Signore degli anelli”
La narrazione dell’assedio di Vienna del 1683 è simile, in questo, all’assedio di Minas Thirit ne Il signore degli anelli e non sappiamo se J.R.R. Tolkien o il regista Peter Jackson abbiano avuto presente questo assedio. Certo le corrispondenze non sono poche. Un grande esercito assediante, il crollo delle mura, una resistenza disperata sono elementi necessari, quasi banali: ma che dire della corrispondenza tra la carica dei cavalieri di Rohan e quella degli ussati alati di Sobieski? Che dire della marcia dei cavalieri polacchi attraverso il Wienerwald, paragonata a quella dei Rohirrim attraverso la foresta druadana? E che dire del sistema di comunicazione in vigore nell’impero asburgico, con fascine poste sulla sommità di monti e colline e che venivano accese per segnalare l’imminente pericolo? Tale sistema di segnalazione esisteva ma, tornando all’assedio storico, funzionò poco e male, così che tatari e ungheresi poterono saccheggiare il territorio dell’impero.
Questa cavalleria leggera, tuttavia, non era in grado di conquistare città fortificate come Wiener Neustadt o il monastero di Lilienfeld, che venne accanitamente difeso dai monaci, o la roccaforte monastica di Klosterneuburg, difesa dai monaci agostiniani e dalla popolazione. Questa difesa statica permise alla cavalleria e all’artiglieria leggera di Carlo di Lorena di contrattaccare i predoni a Pressburg il 30 luglio e di infliggere loro una sconfitta definitiva, assicurando la libertà di movimento all’esercito di soccorso che si stava radunando.
Gli alleati degli Asburgo e la battaglia per le mura
Da tutto l’impero, infatti, accorrevano milizie e volontari per essere inquadrati nell’armata di soccorso ed è giusto ricordare i nomi di alcuni loro capi: il principe Georg F. von Waldeck guidava 9mila uomini dai territori dell’Alto Reno; il principe Massimiliano conduceva 10mila bavaresi; l’elettore del Brandeburgo protestante dava 1.200 soldati e Sobieski altri 15mila. È al re polacco che spettava il comando supremo e Carlo di Lorena, positivamente influenzato da padre Marco d’Aviano, accettò di buon grado tale subordinazione. Il lettore moderno ha letto bene: soldati cattolici e protestanti marciavano in battaglia sotto la stessa bandiera, archiviando definitivamente, almeno nell’impero, i disastri della guerra dei Trent’anni conclusasi solo pochi decenni prima, nel 1648.
In Vienna assediata, durante il mese di agosto i difensori cominciarono a essere decimati non solo dai proiettili turchi, ma anche da un’epidemia di dissenteria. Tuttavia, la minaccia più grave proveniva dal sottosuolo, dove migliaia di eccellenti minatori ottomani scavavano gallerie sotto le mura di Vienna per farle saltare in aria. La prima mina fu fatta scoppiare il 22 luglio, poi un’altra il 23 e una terza il 25. Gli effetti non furono quelli desiderati dai turchi e gli attacchi furono respinti con relativa facilità. Il 29 luglio due mine furono fatte detonare e molti difensori furono seppelliti vivi sotto le macerie, ma i difensori riuscirono a costruire una barricata provvisoria e a non cedere terreno. Il 30 luglio un’altra esplosione faceva crollare il bastione del Palazzo e, questa volta, gli austriaci dovettero abbandonare le posizioni più avanzate.
Fu a questo punto che gli austriaci si decisero a costituire gruppi di volontari che avrebbero scavato gallerie di contromina, andando a sfidare gli ottomani in una guerra di topi e di talpe, intercettando le gallerie d’attacco, penetrando in esse, combattendo a ferro freddo e a colpi di pistola nel buio raramente illuminato dalle torce. Il successo migliore per gli assediati era minare le gallerie e farle saltare in aria o rubare la polvere da sparo. Il 2 agosto gli austriaci fecero saltare una di queste gallerie e brani di cadaveri degli attaccanti eruppero nell’aria. Il 5 agosto, per errore, furono gli austriaci a far saltare in aria parte delle proprie difese al bastione di Lobel. Quasi ogni giorno vi erano attacchi generali con perdite ingenti da ambo le parti e che finivano per logorare sempre di più i difensori, inferiori di numero.
Il 12 agosto due mine colossali fecero saltare in aria un tratto di mura così ampio da poter essere varcato da 50 uomini affiancati. Gli austriaci riuscirono a impedire il passaggio ai turchi ma non a scacciarli dalle posizioni conquistate. Il 14 agosto una nuova mina stava per sfondare le ultime difese, ma un micidiale contrattacco austriaco sul bastione di Lobel scacciò i turchi e distrusse tutti i lavori campali fatti in quel settore. Per i turchi fu una sconfitta così pesante che, per dodici giorni, non vi furono più attività: una pausa che i turchi avrebbero pagato molto caro.
L’opera di Marco d’Aviano e Innocenzo X
Von Starhemberg, incoraggiato dal successo, dispose un’altra sortita il 25 agosto, ma gli ottomani risposero con uguale ferocia, costringendo gli austriaci a ritirarsi dopo aver perso 200 uomini. Il 27 agosto ordinò una nuova sortita davanti al bastione del Palazzo ma, nonostante i danni inflitti, non riuscirono a impedire agli ottomani di avanzare nuovamente.
Lontano dal campo di battaglia, l’imperatore Leopoldo viveva una fortissima pressione. Alla fine di luglio Luigi XIV si era detto disposto a un trattato di pace con gli Asburgo in cambio del riconoscimento dei territori conquistati. La proposta non fu accettata. Contemporaneamente Leopoldo dovette far prevalere la ragion di stato sul proprio orgoglio, impedendosi di recarsi presso l’esercito di soccorso, in modo da non suscitare liti con Giovanni Sobieski e rischiare di mandare all’aria un’alleanza così fragile. In ciò fu persuaso da padre Marco d’Aviano, che fu la vera “longa manus” di papa Innocenzo X, instancabile tessitore di alleanze e finanziatore dello sforzo militare. È indubbio, infatti, che senza questo di due uomini (il papa e il frate cappuccino) l’assedio di Vienna sarebbe finito ben diversamente e, con esso, tutta la storia europea.
(2 – continua)
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