Ora che è diventato un fenomeno commerciale, di costume, anche culturale visti i dibattiti che genera, parlare di Barbie, il film diretto da Greta Gerwig e divenuto il maggior incasso al mondo mai diretto da una donna (al momento di scrivere ha superato il miliardo di dollari nel mondo), è un po’ più difficile, visto che è stato detto e scritto di tutto.
Partiamo allora da qui, dalla montagna di discorsi che il film ha generato, più o meno volontariamente e conoscendo Gerwig e lo sceneggiatore, il suo compagno Noah Baumbach, è molto probabile che ne fossero consapevoli: nell’immaginare una storia che potesse veicolare la Barbie, il giocattolo Mattel più famoso del mondo e della storia, i due parlano direttamente al pubblico adulto e contemporaneo mascherando il messaggio con le forme del film per bambini o ragazzi.
Il film comincia infatti quando la Barbie Stereotipo, ovvero quella su cui tutte le altre sono state modellate (interpretata da Margot Robbie, perfetta), la più amata di Barbieland, un mondo a misura di donna, in cui i maschi sono relegati ad accessori, comincia ad avere pensieri di morte. Perché? Da che o da chi dipendono? Per scoprirlo Barbie intraprende un viaggio assieme a Ken (Ryan Gosling, strepitoso) nel mondo reale, alla scoperta della ragione di quella crisi esistenziale.
Chi ha parlato di Alice nel paese delle meraviglie al contrario, chi del percorso di Pinocchio per diventare un bambino vero e sono riferimenti giusti, perché il segreto del successo del film è nella sua trasversalità di citazioni, di temi, di messinscena, di strategie comunicative per trasmettere meglio i suoi messaggi, parlare contemporaneamente agli adulti e ai più piccoli. La grande novità però non sta in queste strategie, che sono di casa nel mondo dell’animazione per esempio, basti pensare ai migliori film Pixar o Ghibli e non solo; la vera trovata è nello stile e nella regia a suo modo radicalissimi, in cui tutto è a misura di nonsense, di fantasia infantile, di regressione dell’immaginario, pensato come se fosse davvero il gioco di un gruppo bimbi alle prese con le bambole.
Perché Barbie, Ken e tutti gli altri personaggi sono consapevoli di essere bambole, sanno che esistono bimbi che giocano con loro, ma non vivono con loro come in Toy Story (e nel terzo film della serie Pixar, c’era già una magnifica anticipazione del lavoro di Gerwig), hanno un mondo metafisico fatto a loro esilarante immagine; eppure, la Los Angeles reale è uno specchio, appena poco deformato, di Barbieland, i mondi si somigliano in maniera impressionante e per questo stimolante, l’unica differenza è il patriarcato. Il Consiglio di amministrazione Mattel (capeggiato da Will Ferrell) è un concentrato di maschi – e per lo più bianchi – che parla, si muove e agisce esattamente come le bambole, il marito di Gloria, l’ex-bambina che entra in contatto con Barbie, interpretata da America Ferrara, è un volenteroso fesso come i vari Ken: come hanno fatto quindi a prendere il potere rispetto a donne mostrate come superiori intellettualmente?
Qui ci viene in aiuto un altro riferimento forte, ma più occulto, ovvero 2001: Odissea nello spazio la cui sequenza iniziale è una parodia esplicita: il film di Kubrick raccontava la nascita dell’intelligenza umana partendo dalla violenza come fattore scatenante, Barbie mostra quindi la presa del potere da parte del patriarcato attraverso la violenza, il dominio fisico, mentre l’intelligenza femminile riequilibra la situazione, permettendo anche ai Ken di poter lottare per la propria parità a Barbieland.
Attenzione però, a differenza delle accuse che in molti hanno rivolto al film, quella di Gerwig non è un’opera davvero manichea: mostra un ribaltamento in cui gli spettatori e le spettatrici devono per una volta immergersi nei panni dell’altro, chi ha il potere e chi lo subisce, ma le donne non sono le buone della storia (al limite, lo è la Barbie stereotipo, che scopre finalmente la propria identità intima) e lo mostra il beffardo finale, quando rispondono alle richieste di parità maschile nel modo condiscendente con cui le maggioranze hanno sempre trattato le minoranze. Didascalico per programma (sono i personaggi a parlare coscientemente tramite didascalie, perché incarnati da bambino che giocano con loro), Barbie riesce, pur con qualche inevitabile compromesso e limite, a comporre strati di discorsi, idee, concetti politici più o meno semplici, dentro una confezione mainstream smagliante, un film divertente e un’operazione di marketing al limite del diabolico.
Dopo un quindicennio di blockbuster lisci come l’olio, in cui al limite si poteva dire “mi piace” o “non mi piace”, Barbie smuove gli animi e fa discutere, litigare, incazzare o fingere di no, ma chiede che se ne parli. Evviva.
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