Nel secondo libro della Institutio Oratoria (17, 37-40) Quintiliano, quando sostiene che la retorica è una ars, afferma che c’è retorica là dove il vero non può essere distinto chiaramente. Quintiliano offre qui una concezione della retorica come ricerca di una verità fondata sulla discussione, ottenuta per tentativi ed errori. Una retorica che contribuisce alla costruzione di un ordine sociale basato sulla discussione della verità, perché garantire la giusta dialettica linguistica permette alla politica di esercitare il suo vero compito.
Questa idea è legata a quella che si potrebbe definire l’ideologia linguistica del mondo latino, almeno a partire dal II secolo, epoca in cui la tradizione greca si rinnova profondamente e la lingua viene vista come depositaria della civiltà. La lingua è la forma trasmessa dalla civiltà ed è tutt’uno con essa, è l’istituzione delle istituzioni: Latinus sermo cum ipso homine civitatis suae natus, dice un’antica formula che i Romani riferivano alla propria lingua e che risale a Varrone.
È questa concezione che sta alla base del pensiero retorico di Cicerone. La capacità di usare correttamente la lingua rende l’oratore un uomo saggio e gli permette di agire moralmente sulla comunità. Questa idea implica una sorta di inversione del rapporto tra filosofia e retorica. Se per Aristotele infatti la dialettica definisce le forme essenziali del ragionamento anche per quanto riguarda il discorso argomentativo, in Cicerone, come poi in Quintiliano, la retorica invade tutto. La filosofia diventa una disciplina che prepara l’oratore, colui che è la manifestazione più alta del coraggio intellettuale. Questo significa che filosofia e retorica non possono essere separate: la retorica non è pura forma sovrapposta al contenuto, ma il modo migliore per creare il contenuto. Dunque la retorica diventa un mezzo per modificare il reale e per questo un mezzo di azione politica.
Questa idea della retorica come coronamento della filosofia è particolarmente presente proprio in Quintiliano, per il quale l’eloquenza coincide con un ideale di umanità; parlare bene significa anche pensare bene ed essere un uomo migliore. Di conseguenza, il buon politico non può fare a meno della retorica, non come artificio ma come strada per una verità dialogante, definita nel confronto e nella ponderazione delle ipotesi. Dunque sostenere che la retorica si colloca là dove è difficile scegliere e che presuppone un’idea dialogica della verità significa dire che la retorica propone un ideale di politica come campo di verità consensuale.
C’è un’idea della verità secondo la quale essa non è oggetto di discussione ma di semplice evidenza. Nella scienza quest’idea corrisponde a ciò che Marcello Pera ha chiamato concezione semantica della verità. Si tratta di quella concezione che appartiene a chi crede che la verità o falsità delle teorie dipende semplicemente da come il mondo è. Dimostrare in questo senso è mostrare, indicare alla vista.
Se trasferiamo tale idea in politica questo è il fondamento dei grandi sistemi non dialogici. La verità (e dunque l’autorità) non ha a che fare con l’individuo ma è un qualche cosa di esterno a cui non possiamo che conformarci. Se la verità è stabilita dall’autorità o dalla storia non è necessario argomentare per creare consenso ma è sufficiente esibirla, e chi non vi si conformerà non potrà che sbagliare. Tutti conoscono la leggenda del califfo che diede l’ordine di bruciare la biblioteca di Alessandria con la motivazione che o tutti i libri contenuti in essa dicevano le stesse cose dette dal profeta e quindi erano inutili, o dicevano cose contrarie e quindi erano sbagliati. Il califfo, dice Umberto Eco, conosceva e possedeva la verità, aggiungerei che aveva un’idea della verità come assoluto, che non può essere argomento di discussione ma solo di persuasione più o meno violenta.
La retorica entra in gioco proprio là dove questa idea della verità viene meno, dove le ragioni devono essere soppesate e non semplicemente viste. E questo è il campo dell’argomentazione, che propone un confronto fra ragioni e contro-ragioni, un dialogo che permette di soppesare i pro e i contro, e porta infine a scegliere l’ipotesi migliore perché più ragionevole. È la bilancia come simbolo di giustizia, proprio perché stabilisce quale di due argomentazioni ha più peso senza pregiudizi.
L’oratore politico, come in effetti Quintiliano a più riprese sembra sottolineare, deve porsi dal lato di questa retorica dialogica che prevede controagomentazioni e confutazioni. È in questo senso che avviene il superamento della divisione fra filosofia da una parte, che è rivolta alla ricerca della verità astratta, e le discipline pratiche, come la politica e l’etica, che forniscono tecniche per agire sugli altri.
Questa retorica pretende una politica per la quale le scelte non avvengono per un grado di vicinanza a un vero dato da una qualche autorità che lo giudica evidente, ma dal dialogo con il demos. Una retorica dunque che non deve semplicemente persuadere, ma che consiste in una vera e propria ricerca comune della verità.
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