È stato l’ultimo, in ordine di tempo, a parlare di riforme, il 1° agosto, presentando un ddl di revisione costituzionale “per l’introduzione dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri in Costituzione”, il cosiddetto “sindaco d’Italia”. Una breve conferenza stampa, quella di Matteo Renzi, con la certezza di avere tutta l’attenzione di Giorgia Meloni.
Un rapido riepilogo. Il presidente del Consiglio comincia il suo mandato dicendo di volere il presidenzialismo. Meglio quello francese, ma si vedrà. Il 9 maggio il confronto con le opposizioni termina con un groviglio di distinguo e di contro-opzioni incrociate, dalle quali emerge di fatto un possibile allineamento tra FdI e Renzi. Non sul semipresidenzialismo alla francese, ma sul premierato. Poi il tema della forma di governo sparisce dai radar per riemergere il primo giugno: da una riunione informale della Meloni con i principali partiti – annuncia il Corriere – emerge la sua preoccupazione di “affidare al popolo la scelta di chi guiderà il governo”. Una chance imperdibile, per la Meloni, di varare una riforma costituzionale “identitaria” – parallela all’autonomia di marca leghista, dal destino incerto – e di farlo con il sì del centro renziano, situato all’opposizione ma ormai a dichiarata vocazione post-berlusconiana.
Ne abbiamo parlato con Enzo Cheli, costituzionalista, già vicepresidente della Consulta, accademico dei Lincei, presidente dell’Agcom dal ’98 al 2005 e autore di un recente saggio proprio su questi temi, Costituzione e politica. Appunti per una nuova stagione di riforme costituzionali.
“Valuto con molta preoccupazione la prospettiva di riforma costituzionale che questa maggioranza sta elaborando” spiega Cheli al Sussidiario.
Perché, professore?
Si sono confrontate tre proposte. Il presidenzialismo secondo il modello statunitense, ipotesi che mi pare abbandonata insieme al semipresidenzialismo francese, e il cosiddetto premierato o “sindaco d’Italia” come viene definito sui media, cioè l’elezione diretta del presidente del Consiglio da parte del popolo.
Ma perché è preoccupato?
Perché è giusto perseguire l’obiettivo, che accomuna tutte le forze politiche, di un rafforzamento della stabilità e dell’efficienza dei governi, ma imboccare la strada che si sta delineando mi sembra molto rischioso ai fini della stabilità dell’intero impianto democratico.
È un giudizio molto forte il suo.
C’è un equilibrio che va trovato, altrimenti la cosiddetta “governabilità”, il rafforzamento dell’esecutivo e la stabilità dell’impianto democratico sono destinati a creare contraddizioni, anche gravi.
Immagino che lo dica sulla base non di una ricetta astratta, ma del nostro sistema costituzionale e della sua storia.
È questo il punto. A me pare che il nostro sistema politico, anche alla luce della nostra storia costituzionale, che non può essere ignorata, non sia oggi nelle condizioni di poter affrontare senza correre un serio rischio questo “salto di corsia” dal sistema di governo parlamentare a quello presidenziale.
Il motivo?
L’impianto del nostro sistema politico non dispone di quelle caratteristiche di coesione che risultano indispensabili per far funzionare bene un governo presidenziale. Pensiamo alle vicende recenti dei due presidenzialismi in campo, quello Usa e quello francese.
Intende dire che sono in crisi?
È sotto gli occhi di tutti. Sono in crisi profonda proprio perché si stanno sgretolando gli elementi di coesione e di unità dei due rispettivi sistemi.
Vada avanti.
Le ragioni che indussero i nostri costituenti a scegliere il governo parlamentare furono discusse a fondo, nel settembre 1946, sulla base di una relazione di Mortati alla Costituente sul potere legislativo. Secondo Mortati, per scegliere la forma migliore di governo occorreva considerarla come un vestito che va indossato dal corpo sociale. Un abito che deve andare bene per “quel” corpo sociale, senza una pretesa di validità assoluta. Nello stesso tempo, la caratteristica principale del sistema politico italiano, secondo Mortati, era la disomogeneità politica.
Molti partiti e molto divisi tra loro.
Esatto. Date queste caratteristiche, la forma di governo presidenziale, che in astratto potrebbe essere anche la migliore – si pensi, nell’Italia di allora, alla posizione di Calamandrei e degli azionisti – in concreto non è applicabile al nostro Paese.
Per quale ragione?
Perché aumenterebbe le divisioni tra le forze in campo, elevando il rischio di instabilità complessiva. In una situazione in cui ci sono molti partiti e tali partiti sono molto divisi, l’unica forma appropriata è il parlamentarismo, che favorisce il confronto e la coesistenza tra le parti.
Il presidenzialismo invece?
Accentua la contrapposizione tra due schieramenti. Se poi essi sono più di due, la contrapposizione diventa ancora più complessa.
Sappiamo cosa fece la Costituente.
Scelse il governo parlamentare. Questo accadeva 77 anni fa, le cose sono cambiate, ma c’è un elemento di fondo che è rimasto costante: la frammentazione del quadro politico. Se non è peggiorata, certamente non è migliorata. Questo fattore, e io sono molto netto su questo punto, sconsiglia radicalmente di imboccare la strada divisiva di un sistema presidenziale. In più, l’analisi del sistema politico trova una conferma se riflettiamo sulla nostra storia costituzionale.
Vale a dire?
Noi abbiamo avuto una Costituzione che nel complesso ha funzionato piuttosto bene: ha garantito l’unità del Paese, il radicamento progressivo della democrazia, l’attuazione delle libertà costituzionali. Se si deve fare una riforma costituzionale, bisogna riformare quello che non ha funzionato, non quello che ha funzionato.
E cosa è che non ha funzionato e che va riformato?
Il raccordo su cui si basa l’indirizzo politico, cioè il raccordo tra corpo elettorale, parlamento e governo. È lì che le cose hanno portato all’instabilità e all’inefficienza.
A proposito del raccordo tra corpo elettorale e governo c’è una cosa interessante da rilevare. La coalizione di maggioranza è quella votata dagli elettori; il leader del partito di maggioranza è diventato presidente del Consiglio; il programma della coalizione è diventato programma di governo. È un quadro che non ha in sé motivi di instabilità. Allora perché, secondo lei, il capo del Governo vuole una “democrazia decidente”?
Ma perché il presidente del Consiglio e i leader della maggioranza sanno di esercitare un indirizzo politico apparentemente coeso, ma fragile nella sostanza. I partiti sono oggi attraversati da faglie più o meno evidenti, le correnti sono più agguerrite che in passato, ci sono forti spinte individualistiche, corporative, disgreganti.
Per capirci, è la differenza tra i partiti della prima repubblica e quelli della seconda?
In pratica sì. Non solo. Non dimentichiamoci di un fatto macroscopico, surreale: nella passata legislatura abbiamo assistito a un presidente del Consiglio che ha presieduto due governi retti da maggioranze opposte. Come è possibile questo?
Secondo lei?
Per il trasformismo. E il trasformismo è la conseguenza della frammentazione. E questa aspirazione al presidenzialismo “decidente” non è altro che la volontà di consolidare un terreno che consolidato non è. L’errore sta nel volerlo consolidare dal vertice, ricorrendo ad un diverso modello istituzionale, quando la malattia è alla base, nei partiti.
È così che arriviamo alla contraddizione che diceva all’inizio?
Certo. Se si punta ad ottenere la “governabilità” modificando il modello costituzionale ma quello che sta sotto il “vestito” – cioè il sistema politico, che crea collegamento tra corpo elettorale, parlamento e governo – è fragile, frammentato e contrapposto, invece della governabilità si rischia di dare instabilità alla democrazia.
Insomma cosa rischiamo?
Rischiamo di scivolare nel bonapartismo o in soluzioni perfino di tipo autoritario.
Cosa bisogna fare?
Occorre arrivare ad una riforma che rafforzi l’esecutivo senza mettere in discussione il quadro delle garanzie stabilito in Costituzione. E proprio i modelli presidenzialisti di cui si parla, in particolare il “sindaco d’Italia”, indeboliscono fortemente il quadro delle garanzie, sotto due aspetti.
Ovvero?
Con l’elezione diretta del primo ministro non solo si concentra una grossa dose di potere politico formale nelle mani di una sola persona; si indebolisce e si emargina il parlamento, a cui si toglie la fiducia e con essa il controllo sul governo, e si indebolisce il potere arbitrale del capo dello Stato. Andremmo a farlo nel momento in cui è più grave la crisi, nonostante l’apparenza delle ultime elezioni che lei richiamava.
Non ritiene che il ruolo della presidenza della Repubblica sia invece ben più rilevante oggi che in passato?
Se è così, lo dobbiamo all’indebolimento corrispettivo del sistema dei partiti.
Così torniamo al punto di partenza.
Non proprio. Si vuol fare una riforma per cambiare il modello costituzionale? Ce n’è un’altra più urgente che riguarda il sistema politico: legge elettorale, finanziamento e democrazia interna dei partiti, comunicazione politica. Si cominci da qui. Ripeto: è controproducente e rischioso aumentare la forza formale di un governo (il vertice) se il sistema politico (la base) è fragile.
Se lei dovesse scegliere tra i vari modelli di presidenzialismo di cui si è discusso?
Il “sindaco d’Italia” o elezione diretta del premier mi pare il più pericoloso, e ho spiegato perché.
Meglio cambiare la legge elettorale?
Sì, è molto più importante, nel nostro caso, della forma di governo. Bisogna giocare su meccanismi che ridiano coesione al corpo sociale e riportino a un avvicinamento del tessuto sociale all’impianto istituzionale. Oggi l’elemento veramente preoccupante è l’astensionismo. Più l’astensionismo aumenta, più si indeboliscono le basi della democrazia.
Ma chi aumenta l’astensionismo?
Tutto ciò che favorisce la contrapposizione tra corpo sociale e istituzioni.
I suoi consigli alla maggioranza, professore?
Conserviamo il modello parlamentare, e rafforziamo la stabilità e la forza dei governi all’interno di questo modello. Le modalità ci sono.
Ce ne dica alcune.
Elezione diretta non popolare ma parlamentare del primo ministro, come avviene in Germania: il premier sarebbe rafforzato. Si può pensare ad una fiducia separata: primo ministro che ottiene la fiducia di ambedue le camere separatamente dagli altri ministri; acquisterebbe un peso maggiore nel governo. Si può rafforzare la sua proposta di nomina e revoca dei ministri. C’è poi la sfiducia costruttiva, non è una soluzione che prediligo ma in Germania ha concorso alla stabilità.
(Federico Ferraù)
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