Non sono strani gli altri, gli individui delle altre culture che affollano ormai le nostre città. Siamo noi occidentali ad essere weird (strani) rispetto al resto delle popolazioni del mondo. Il volume di un noto professore di biologia evolutiva umana all’Università di Harvard (Joseph Henrich, Weird. La mentalità occidentale e il futuro del mondo, Il Saggiatore 2022), che ha fatto di weird un acronimo (“western, educated, industrialized, rich, democratic”), cerca di mostrare sulla base di un’ampia mole di dati quali siano le ragioni storiche di ciò.
L’evoluzione culturale ha degli effetti e ha prodotto radicali cambiamenti che si sono estesi gradualmente nel tempo. Alla radice di questa evoluzione Henrich sottolinea, in particolare, il ruolo della Chiesa cattolica nel promuovere decisamente una concezione della famiglia in cui erano vietati o almeno ostacolati i matrimoni fra parenti e, quindi, era sempre più aperta agli estranei. Esaminando il periodo successivo alla cristianizzazione dell’Europa soprattutto occidentale, egli cerca di mostrare come si siano imposte certe caratteristiche dell’uomo europeo che poi si sono estese per via dei flussi migratori ad altre nazioni del nuovo mondo e per via di emulazione ad altre culture.
Fra le caratteristiche dei Weird fondamentali appaiono la maggiore apertura agli estranei e non solo al proprio gruppo familiare, una tendenza universalistica della morale, una maggiore capacità di valutare le cose oggettivamente. Senza prefiggersi esplicitamente questo scopo, ma basandosi sull’interpretazione di dati scritturistici e talora anche sulla convenienza sotto il profilo patrimoniale, l’azione della Chiesa ha avuto questi esiti rivoluzionari.
Questo volume di Henrich conferma sul piano delle scienze umane e biologiche quanto già affermava sul piano storico filosofico e socio-giuridico un allievo di Isaiah Berlin, Larry Siedentop, in L’invenzione dell’individuo. Le origini del liberalismo (Luiss University Press 2016). Chi direbbe, per esempio, che il centralismo papale di Gregorio VII, Innocenzo III, Innocenzo IV, aiutati da schiere di canonisti, abbia favorito l’appiattimento delle differenze fra gli uomini dei vari ceti sociali, costituendo un paradigma per il nascente Stato moderno?
Anche in questo caso si conferma il ruolo della Chiesa nell’esaltazione dell’individuo nei confronti della famiglia, del lignaggio, dei legami biologici fra gli uomini che contraddistinguevano intimamente tutte le civiltà precristiane: “il cristianesimo […] aspirava a creare un’unica società umana, una società composta cioè da individui anziché da tribù, clan o caste. Nel cristianesimo la relazione fondamentale tra l’individuo e il suo Dio costituisce il test fondamentale per individuare quel che conta realmente. Si tratta, per definizione, di un test che si applica a tutti egualmente. Da ciò deriva che l’individualismo profondo del cristianesimo era semplicemente il rovescio del suo universalismo. La concezione cristiana di Dio divenne lo strumento per creare la fratellanza tra gli esseri umani, per far acquisire alla specie umana la consapevolezza di sé, inducendo ciascuno dei suoi membri a vedere se stesso o se stessa come qualcuno che ha, almeno potenzialmente, una relazione con la realtà più profonda – cioè Dio – che richiede e giustifica uno status morale eguale per tutti gli esseri umani”.
Un interrogativo s’impone dopo la lettura di questi volumi che sottolineano giustamente la “stranezza” del senso occidentale dell’individuo, ma non altrettanto il ruolo svolto anche nel contesto cristiano dalla dimensione comunitaria: se l’uomo desidera strutturalmente il riconoscimento da parte di altri (come tanta filosofia e psicologia hanno evidenziato), se ricerca il bene comune, che ruolo ha la comunità dopo la scoperta dell’individuo? E come queste dimensioni, individualità e relazione, si condizionano proficuamente a vicenda?
Questo interrogativo appare particolarmente attuale (e non solo sul piano teorico), in un momento storico in cui si vedono i limiti di un individualismo privo di legami stabili favorito dalla globalizzazione e dalle nuove tecnologie, da quella che Magatti e Giaccardi chiamano la supersocietà (Supersocietà. Ha ancora senso scommettere sulla libertà?, Il Mulino 2023), ma non si è più disposti a sacrificare l’autonomia dell’individuo tornando alle società precristiane (e nemmeno sarebbe realisticamente possibile farlo).
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