Dopo l’incontro tra il Governo e le forze politiche dell’opposizione parlamentare sul tema del salario minimo, le posizioni sono rimaste immutate. Sul salario minimo legale le forze politiche dell’ opposizione, con l’esclusione di Italia Viva, hanno costruito lo zoccolo duro di una potenziale alleanza fondata su una particolare lettura della società italiana, caratterizzata da livelli di povertà e da disuguaglianze che vanno rimediate con supplementi di interventi normativi e di risorse da parte dello Stato. La coalizione di Governo, almeno nelle intenzioni, si propone di rinvigorire il ruolo dei ceti produttivi per ridare slancio all’economia, adottando provvedimenti finalizzati a ridurre il costo del lavoro, per incentivare la crescita dei salari legati alla produttività e la ricerca attiva del lavoro.
Nel corso dell’incontro, e nell’intervista rilasciata successivamente al Corriere della Sera, la presidente del Consiglio Meloni ha ipotizzato di coinvolgere il Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, l’organismo costituzionale che prevede la presenza delle parti sociali) come sede di approfondimento e di redazione di proposte da sottoporre al Parlamento. Tentativo che viene assimilato dai partiti di opposizione a un depistaggio per supplire alla carenza di idee dell’Esecutivo sulla materia. Il nuovo Presidente del Cnel, l’ ex ministro Renato Brunetta, nel corso delle audizioni parlamentari sul tema ha presentato una nota contenente 8 proposte di lavoro, rivolte a favorire una ripresa dei salari reali in Italia, e per candidare il Cnel come sede di approfondimento e di monitoraggio degli esiti delle politiche salariali.
La mossa del Governo ha una sua logica. La scelta di affidare alla contrattazione collettiva il compito di offrire risposte alla problematica dei salari minimi presuppone una disponibilità esplicita da parte delle principali rappresentanze del mondo del lavoro. D’altro canto, l’assenza di un confronto tra le parti sociali consente ai partiti dell’opposizione di politicizzare il tema per lucrare il potenziale dividendo in termini di consenso elettorale, che la proposta tende a neutralizzare.
In altri tempi, quelli della celebrata stagione della concertazione, la questione salariale inserita nel contesto economico generale è stata l’oggetto primario del confronti tra i Governi e le parti sociali, che lasciavano al Parlamento il ruolo di ratificare l’impatto normativo delle intese raggiunte. Allo stato attuale le grandi confederazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori risultano ridotte al rango degli attori non protagonisti. La politicizzazione del confronto consente alla Cgil e alla Uil di dare uno sbocco alle iniziative di mobilitazione intraprese sulla base di proposte generiche e palesemente insostenibili per l’eventuale confronto con le controparti. Sul versante opposto, lo stallo dei rinnovi contrattuali consente alle imprese di ricostruire i margini di redditività, in molti casi con conseguenze inflazionistiche non motivate, che si erano ridotti nel corso della pandemia. La svalutazione dei salari è andata ben oltre la preoccupazione di evitare una rincorsa tra prezzi e salari penalizzando in modo irragionevole le retribuzioni di milioni di lavoratori.
L’incapacità di affrontare la questione salariale è solo la punta dell’iceberg della crisi delle relazioni sindacali, che si aggiunge alle crescenti difficoltà di soddisfare i fabbisogni professionali del sistema produttivo che non viene nemmeno considerato come oggetto meritevole di un confronto.
Quale contributo può offrire l’introduzione di un salario minimo legale di 9 euro per risolvere la questione salariale di: estendere le tutele dei contratti collettivi maggiormente rappresentativi (che riguardano tutte le condizioni di lavoro dell’insieme dell’insieme dei lavoratori non solo delle qualifiche più basse) oltre l’attuale 95% dei lavoratori dipendenti; contrastare il lavoro sommerso sperando che i datori di lavoro che non applicano gli attuali contratti collettivi li adeguino ai nuovi minimi salariali previsti dalla legge?; imprimere una spinta alla crescita dei salari senza tener conto che il differenziale negativo rispetto alla media degli altri Paesi sviluppati è determinato per lo più dalla bassa incidenza e dal basso valore dei salari delle qualifiche medio alte?
Nei commenti precedenti dedicati alle false promesse del salario minimo legale abbiamo cercato di dimostrare l’incongruità di questi obiettivi e il rischio, assai concreto, che l’introduzione di un salario minimo legale consenta una via d’uscita per i datori di lavoro dai contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali più rappresentativi. Quelli presi in considerazione nei i pronunciamenti della Corte Costituzionale, e dalla Magistratura, per stabilire il valore equo delle retribuzioni in applicazione dell’art. 36 della Costituzione e del dispositivo sul giusto salario rapportato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto.
I rinnovi contrattuali avvengono con una buona regolarità nell’industria manifatturiera, nella grande distribuzione e nei settori banche, assicurazioni, telecomunicazioni ed energia, caratterizzati nell’insieme da un buon andamento della produttività. Con il concorso della contrattazione che svolge il compito di redistribuire i risultati economici a favore di poco meno di 5 milioni di lavoratori, circa un terzo del totale di quelli privati.
Produttività che risulta stagnante, o addirittura negativa, nei comparti dei servizi ad alta intensità di occupazione: turismo, ristorazione, pulizie, servizi alle persone e per il tempo libero, alcuni rami della logistica e della distribuzione, edilizia e agricoltura, riparazioni e manutenzioni. Coincidenti con quelli caratterizzati da bassi livelli di investimento e da un’elevata incidenza del lavoro sommerso e delle sottodichiarazioni dei redditi percepiti. Prestazioni che in molti casi (lavoro autonomo, doppi o tripli lavori, ore di lavoro non dichiarate) generano redditi complessivi superiori a quelli netti percepiti dai lavoratori dipendenti regolari. Questi fenomeni, oggetto di reazioni scandalizzate nell’occasione dei comunicati della Agenzia delle Entrate, vengono puntualmente trascurati dalle cosiddette ricerche impegnate a calcolare il numero dei lavoratori poveri. Che variano dai 3 ai 5 milioni sulla base del tasso di demagogia praticato dall’intellettuale, dal politico e del sindacalista di turno che viene intervistato.
Sono modelli produttivi che tendono a sottoutilizzare le risorse disponibili: in particolare le tecnologie e il lavoro qualificato; che penalizzano la competitività e la capacità di attrarre investimenti e lavoratori disponibili.
Ci sono due modi di affrontare questi problemi. Quello attualmente dominante basato sull’aumento dei trasferimenti pubblici per sostenere i redditi di varia natura, compresi quelli degli evasori che grazie alle dichiarazioni Isee taroccate possono accedere alle prestazioni sociali negate al 13% dei contribuenti che dichiarano più di 35 mila euro lordi e versando il 61% delle imposte sul reddito. Ovvero per integrare le rendite pensionistiche di coloro che non hanno versato i contributi. Il terreno fertile del populismo di ogni colore e della competizione tra forze politiche e rappresentanze sociali, nel rivendicare gli interventi da mettere a carico dell’Erario che caratterizza la caotica stagione della cosiddetta terza repubblica.
Il secondo, che non sembra riscontrare grandi adesioni, è quello di mobilitare gli attori che possono contribuire a migliorare l’utilizzo delle risorse disponibili con il concorso di incentivi e di premialità per i risultati conseguiti.
Nel secolo scorso l’avremmo definita come la sfida dei riformisti contro i massimalisti. Altri tempi e altre culture politiche che godevano del vantaggio di non essere preda dei social e delle chiacchiere da bar che assumono il rango della voce del popolo.
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