Merita di non essere archiviata troppo in fretta la notizia, del 9 agosto, del nuovo testo scolastico di storia russa dal 1945 al 2014 e oltre, commissionato da Putin ai suoi storiografi di fiducia e in via di adozione già dal prossimo settembre per tutti i giovani maturandi, cioè i diciassettenni dell’undicesimo anno dell’iter scolastico della Federazione. Di primo acchito, infatti, l’operazione appare, e lo è certamente, tipica propaganda di guerra, destinata a persuadere e motivare le nuove leve, attraverso faziose forzature e spudorate falsificazioni della realtà, ai destini imperiali della patria kirill-putiniana.
In questa versione, la vittoria contro l’invasore hitleriano del 1945 è data simbolo del nuovo battesimo della Russia e della sua missione osteggiata dalla corrotta Washington del diavolo Biden e dall’Ucraina aggressiva agente dell’Occidente, massicciamente militarizzata e nazificata. Kiev – da cui peraltro originò mille anni fa la civiltà russa europea e cristiana – sarebbe la capitale di uno Stato artificiale autore del genocidio delle popolazioni russofone del Donbass. Tutte balle spaziali, naturalmente, ma gli autocrati come i dittatori di ogni specie si arrogano il monopolio della verità ufficiale. Vero è il punto di vista del potere, il resto è falso. Sergej Kravtsov e Vladimir Medinsky, due dei protagonisti della revisione storiografica putiniana, hanno evidentemente imparato da Goebbels (croce uncinata) come da Beria e Suslov (falce e martello).
In realtà va considerato che da vent’anni lo zar Putin si pone come lo “storico in capo”, come recita il titolo del bel libro di Nicolas Werth (Einaudi 2021), studioso di fama e presidente di Memorial-France. Lui in persona, di pari passo con il patriarca Kirill, hanno pronunciato discorsi o ispirato saggi finalizzati a una completa rivisitazione della storia russa. L’idea guida, come ha sintetizzato Stefano Caprio su Asia News, è che la Russia, e solo essa, sussiste necessariamente come impero che unifica popoli euro-asiatici grazie alla vera fede, cioè l’Ortodossia, tradita da latini e greci, dagli europei e infine dagli americani.
L’identità nazionale russa, e la sua potenza, rinasce collegando direttamente il presente al passato (lo ha notato Galli della Loggia sul Corriere della Sera nel luglio del 2022). Presente e passato riletti e piegati alla tesi, naturalmente. Dagli zar a Stalin a Putin. Lenin no, finisce nel limbo con infamia per aver ceduto pezzi di Madre Russia al Kaiser nel 1917. Stalin invece ha il supremo merito, sempre per Putin, di aver battuto Hitler e allargato l’impero (ne ha scritto Paolo Mieli sul Corriere del 10 agosto); deportazioni, Gulag, patto Molotov-Ribbentrop per la spartizione della Polonia, fosse di Katyn, persecuzione di credenti e spiriti liberi, ecc.: basta con le ammissioni di colpa di quel buono a nulla traditore di Gorbaciov e successive. Quindi: zar – Stalin – Putin, questa la corretta linea di successione.
Ma perché Putin, in fin dei conti, ci tiene tanto a ricostruire una storia millenaria e non si accontenta della propaganda più immediata? Perché la memoria del passato è decisiva per una coscienza di popolo. Tutte le rivoluzioni – per non andar troppo indietro nei secoli, da quella francese all’Isis – mirano a tagliare via il passato anche distruggendo le sue tracce e le sue testimonianze. E tutti i poteri, quanto più sono prepotenti, autocratici, dittatoriali e con una visione progettuale non di corto respiro, mirano a creare una memoria storica “funzionale” ai propri scopi.
Lo ha fatto, tanto per dire, l’imperatore Ottaviano Augusto che, detto un po’ brutalmente, ha commissionato a Virgilio l’Eneide, grande capolavoro certo della letteratura di ogni tempo, ma gran marchettone a favore della reputazione di Roma caput mundi, con l’invenzione di sana pianta di inesistenti nobilissime e quasi divine origini. Nella modernità, e massime nell’Unione Sovietica, la memoria (manipolata e distorta) diventa strumento per la creazione dell’uomo nuovo, l’uomo fatto su misura del potere. Del comunismo a Putin non può interessare di meno, ma di questo asservimento dell’uomo il più possibile fin nella sua autocoscienza, interessa eccome. Tant’è vero che prende di mira soprattutto l’educazione.
A questo punto non si può non riprendere più vigorosamente contezza di quanto pluralismo, democrazia, società costruita (anche) dal basso siano beni preziosi e, per così dire, non negoziabili. Non possiamo dare per scontato nulla di tutto ciò. I valori infatti resistono e durano se sono vivificati da persone e gruppi che vivono (il bisticcio di parole è voluto). A cominciare dalla libertà di educazione. Educare putinianamente cittadini-sudditi, trattando i ragazzi come “vasi da riempire” con l’interpretazione autorizzata e obbligatoria, o aiutare a crescere soggetti liberi, capaci di pensiero critico e confronti, e quindi di responsabilità?
Noi occidentali, per parte nostra, non siamo esenti da rischi. La rete li ingigantisce, altri ne crea. Uno è quello di una progressiva e sempre più rapida obliterazione del passato attraverso comportamenti e atteggiamenti dettati da un “presentismo” (perdonate l’orrida parola, non l’ho inventata io): la tendenza all’immediatezza, al giocarsi del tutto – dai consumi ai rapporti – in un subito senza memoria e senza attesa. Da cui sradicamento e solitudine (ancorché da connessi). Pensate cosa sarebbe una comunità, una famiglia, una patria, un cristianesimo così, senza memoria: niente. Anche una persona così sarebbe niente.
L’altro rischio, peraltro molto noto, è non solo di abboccare alla fake news, che già non è bello, ma autosottomettersi a tesi e visioni capaci di avere più presa – più potere – nella rete, in genere perché fanno leva sulla conferma che offrono, dilatandolo, di quello che crediamo già di sapere o all’opinione che più ci fa compiacere. Per non dire di cosa potrebbe succedere con l’intelligenza artificiale, (mal) applicata alla ricerca e alla divulgazione: con che criteri? E in mano a quali poteri?
Occorrono luoghi dove uomini vivi si incontrino per aiutarsi ad esercitare (o a disseppellire) quella fondamentale esigenza di verità senza cui non c’è possibilità di giudizio, cioè non c’è uomo libero. Luoghi di libera educazione, libera ricerca, libero confronto. O una grande università popolare internazionale: come è – dal 1979! – il Meeting di Rimini per l’amicizia tra i popoli.
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