Napoli 2053. Dopo 30 anni dall’ultima epidemia di Invalsi-23 che colpì migliaia di studenti, siamo tornati sui luoghi del disastro. Quello fu uno degli episodi pandemici più drammatici, perché colpiva una popolazione scolastica già spossata dagli altri attacchi che si erano susseguiti senza soluzione di continuità in tutti gli anni precedenti.
Tutte le profilassi, messe in campo dalle autorità che via via si erano avvicendate, non diedero nessun risultato se non quello di aumentare i rischi del contagio e di rendere cronico il divario delle competenze tra le varie aree geografiche del Paese. Furono stanziati milioni di euro per debellare il virus, non ultimo se ne occupò anche il ministro del Governo dei migliori (quello che ripeteva come un mantra che voleva realizzare la scuola dell’affettività) impegnando molte risorse con la scuola estiva (nel Mezzogiorno!) e con la quale, gridava ai quattro venti, si erano recuperate migliaia di ore di lezione perse con la Dad; ma il poveretto forse non ha mai saputo che tutto fu rimandato a settembre, come si usava fare nell’ambiente scolastico. Poi venne il ministro del merito, che annunciò misure straordinarie con la grande invenzione del tutor scolastico, realizzando quello che un tempo accadeva solo nelle favole (quelle che oggi non si possono più raccontare): il rospo diventa principe, la zucca carrozza e i topolini cavalli. Perché nella scuola italiana era così. Le stesse persone “incapaci”, per i risultati Invalsi, di fare il loro mestiere, con un cambio di parole, come d’uso al ministero (già avvenuto per esempio per i presidi promossi per legge a dirigenti scolastici) diventavano come d’incanto autorizzati ad operare in altri ambiti specialistici.
Intervennero esperti, anche di altri Paesi (i finlandesi in primis); ma nulla faceva regredire il virus che colpiva gli studenti nelle competenze di base. Mancava sempre qualcosa, il quid della questione, che nessun intervento straordinario, nessuna risorsa economica in più, nessun esperto può, come d’incanto, inventare: persone adulte con il gusto di comunicare un significato che loro stesse avevano incontrato e vissuto.
Lo scenario che incontriamo oggi, a distanza di trent’anni, è davvero raccapricciante. Intere generazioni spazzate vie dalla scuola. La scuola stessa spazzata via dalla sua inutilità ed irrilevanza. Resistono gli edifici scolastici, abbandonati alla devastazione del tempo, e sono pochi i superstiti che si ricordano di averli frequentati. Adesso fin da bambini si vive nel Metaverso, che si occupa di loro fin dalla scuola d’infanzia. Abbiamo realizzato un sistema che ha unito il mondo fisico e quello digitale, con asset e avatar interoperabili, fondamentale per creare un Metaverso condiviso. Uno spazio virtuale in cui le differenze con la realtà sono diventate quasi impercettibili. Questo ha portato alla nascita di un nuovo livello di realtà completamente digitale, con valori e un’economia propri, e che ha incluso un’espressione di noi stessi così come nel mondo reale.
Questo nuovo ambiente, che ha incluso anche quello scolastico, permette agli utenti di studiare, lavorare, incontrarsi, giocare e socializzare insieme in spazi 3D. Finalmente si è potuto dire addio ai pericolanti, pericolosi e costosi spazi scolastici. Perché, col tempo, la scuola era diventata come la città di Ersilia descritta da Calvino (Le città invisibili) dove “per stabilire i rapporti che reggono la vita della città, gli abitanti tendono dei fili tra gli spigoli delle case, bianchi o neri o grigi o bianco-eneri a seconda se segnano relazioni di parentela, scambio, autorità, rappresentanza. Quando i fili sono tanti che non si può più passare in mezzo, gli abitanti vanno via: le case vengono smontate; restano solo i fili e i sostegni dei fili”.
Così, quei fili sono stati recisi del tutto. Niente più luoghi di contagio, problemi strutturali e organizzativi, docenti precari, atti di violenza, mancanza cronica di fondi. Soprattutto niente più contagi da Invalsi, tutti ricevono fin dalla scuola d’infanzia le stesse ore di insegnamento. Peccato che, come preannunciava Pasolini nel 1975, “la tragedia è che non ci sono più esseri umani, ci sono strane macchine che sbattono l’una contro l’altra”.
Esistono zone interne del Mezzogiorno ormai totalmente spopolate. Fa davvero impressione tanta spettralità. Paesini con secoli di storia, di cultura, di tradizioni spazzati via dalla denatalità e dall’incuria colpevole della politica. Non esiste più memoria dei borghi abbandonati. Più che il virus Invalsi, furono le cure a far sì che tutto si trasformasse in tragedia.
Eppure, come ci racconta uno degli ultimi docenti sopravvissuti alla pandemia, tra coloro che furono i veri fantasmi e vittime degli eventi ciclici di contagio bastava poco perché le cose andassero diversamente. I suoi occhi, ancora oggi, trasudano tristezza mista a rabbia per essere stati abbandonati molto prima che accadessero gli eventi epidemici. Mai seriamente presi in considerazione, spossati da anni di precariato e pendolarismo; mai ascoltati e coinvolti nelle varie decisioni prese dall’alto, troppo in alto. Invece loro, come un tempo il medico di famiglia (anche quest’ultimo scomparso nel Metaverso) potevano prendersi cura dei bambini ad uno ad uno, con un lavoro continuo e costante se solo la macchina dell’inferno burocratico non li avesse condannati negli anni giovanili pieni di entusiasmo al perenne girovagare tra una scuola e l’altra. Ironia della sorte, proprio in quell’anno, il ministero e tutti i sindacati, con squilli di tromba, annunciavano la firma del miglior contratto per la scuola che valorizzava, ancora una volta, la professionalità dei docenti (sic!). Da notare che il contratto del 2023 (avete letto bene) si riferiva al triennio 2019/2021. Una valorizzazione della professione docente post mortem.
Il docente (nome di fantasia Innocenzo) ci dice che la sensazione che alcuni ebbero (pochi in verità) trent’anni fa, fu quella di un “ci risiamo”, è iniziato l’ennesimo teatrino intorno ai dati Invalsi 2023 che certificano, ancora una volta (e chissà quante altre volte accadrà) che gli studenti del Sud sono indietro su alcune competenze di base. Partono in modo automatico le analisi degli esperti che Pasolini chiamava “la bella truppa di intellettuali, sociologi, esperti e giornalisti delle intenzioni più nobili, le cose succedono qui e la testa guarda di là”. “Ricordo”, ci dice Innocenzo, “che il ministro, come i suoi predecessori, annunciò progetti e risorse per superare il gap, perché è moralmente inaccettabile un’Italia divisa in due con ragazzi del Mezzogiorno fortemente pregiudicati nelle opportunità formative e occupazionali rispetto agli studenti di aree più avvantaggiate del Paese”.
E ancora: “Da qui la decisione di presentare, anche con il contributo di Invalsi e la collaborazione di Indire, una Agenda Sud in dieci punti che prevede l’individuazione di scuole dove maggiori sono le fragilità del contesto sociale per abbandoni, insuccesso formativo e assenze. Iniziamo con 240 scuole. Investiremo risorse importanti. È un passaggio che vedrà più insegnanti in ogni scuola soprattutto per le materie più critiche come matematica, italiano e inglese”. Non era già successo? E tutti gli altri interventi? Scuola viva, scuola estiva, moduli contro la dispersione scolastica: quanti miliardi andati in fumo senza che abbiano incentivato i veri protagonisti della dinamica educativa: i docenti.
Il docente, sempre più triste, ci dice: “Quante risorse economiche si dovevano ancora pretestuosamente sprecare per il Sud sempre in emergenza su tutti i fronti, ambientale, educativo, criminale, economico, sociale? Qualcuno ha visto in che cosa erano impegnati tutto l’anno i nostri alunni? Centinaia di progetti, concorsi, manifestazioni (fatte di mattina per riempirei teatri altrimenti vuoti). E chi avvertiva in quel periodo la frenesia che agitava le scuole, tutte impegnate forsennatamente a spendere in fretta e furia i soldi del Pnrr? Per fare che cosa? Corsi e ricorsi che servivano solo a mettere la X che avrebbe fatto spuntare la casella dell’obiettivo raggiunto e dei conseguenti finanziamenti. Quanti docenti furono coinvolti in scelte votate in fretta e furia dai collegi dei docenti? Quanti alunni, quanti genitori parteciparono realmente e con quali risultati?”.
Oggi, siamo qui a contemplare la fine della scuola, morta, come diceva Charles Péguy già nel 1905, per “crisi di vita”. “La crisi dell’insegnamento non è una crisi dell’insegnamento; non c’è crisi dell’insegnamento; non c’è mai stata la crisi dell’insegnamento; le crisi di insegnamento non sono crisi di insegnamento; sono crisi di vita; denunciano, rappresentano crisi di vita e sono crisi di vita esse stesse”.
E qui scorgiamo negli occhi del maestro Innocenzo la nostalgia del totalmente altro, una scuola reale con docenti e alunni reali.
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