In Italia stiamo assistendo a un nuovo rinascimento occupazionale. Gli ultimi dati dell’Istat certificano, in maniera inequivocabile, tale tendenza. Il numero di occupati a giugno 2023 supera quello di giugno 2022 dell’1,7% (+385mila unità) e il numero degli occupati sale a 23 milioni 590mila. Rispetto a giugno 2022, diminuisce sia il numero di persone in cerca di lavoro (-8,7%, pari a -178mila unità), sia il numero di inattivi tra i 15 e i 64 anni (-2,2%, pari a -280mila). Nonostante ciò, si affacciano all’orizzonte due variabili critiche: la variabile demografica e il fenomeno del c.d. mismatch.
L’aspetto demografico rappresenterà nei prossimi anni il fattore critico più rilevante considerando che tra il 2023 e il 2027 l’intero mercato del lavoro italiano (privato e pubblico) avrà bisogno di circa 3,8 milioni di lavoratori, il 72% dei quali (2,7 milioni) dovrà sostituire occupati in uscita. Nel frattempo, il fattore critico rappresentato dal mismatch nel mercato del lavoro ovvero la mancata corrispondenza tra domanda delle imprese e offerta professionale dei lavoratori, continua a crescere. Aumenta, difatti, la difficoltà di reperimento dei profili ricercati e la difficoltà delle imprese ad assumere.
Si stima che tra il 2023 e il 2027 il 34,3% del fabbisogno occupazionale riguarderà personale con un livello di formazione terziaria (universitaria o professionalizzante) e il 48,1% di profili con un livello di formazione secondaria superiore di tipo tecnico-professionale. Considerando nell’insieme gli indirizzi della formazione secondaria di II grado tecnico-professionale, si stima che l’offerta formativa complessiva riuscirebbe a soddisfare solo il 60% della domanda potenziale nel prossimo quinquennio, con i mismatch più critici per gli ambiti di studio relativi a trasporti e logistica, costruzioni, sistema moda e meccanica, meccatronica ed energia, per cui si prevede che tra il 2023 e il 2027 l’offerta potrebbe coprire circa meno di un terzo della domanda potenziale.
Una possibile ragione del mismatch è legata, secondo alcuni importanti autori (Anthony Klotz), al fenomeno della great resignation, le dimissioni di massa registrate in seguito agli effetti della pandemia sul mercato del lavoro.
Non ci sono dubbi che lo shock pandemico abbia agevolato l’insorgenza di nuovi fenomeni, così come un utilizzo più accentuato dello smart working, per le aziende i cui cicli produttivi lo consentano, rappresentino novità o meglio accelerazioni di innovazioni destinate ad avere futuro. Meno condivisibile la narrazione che questi fenomeni possano anticipare una rivoluzione nel mercato del lavoro quasi a preconizzare un rovesciamento dei rapporti di forza fra aziende e lavoratori, tra esigenze individuali e collettive dei lavoratori stessi. È, per converso, indubbio che le aziende dovranno sempre di più investire nel benessere dei propri collaboratori, nel welfare aziendale e, soprattutto, nella conciliazione tra luoghi e tempi del lavoro.
In buona sostanza, i fenomeni della great resignation e dello smart working rappresentano delle evidenze derivanti dalle accelerazioni mutuate dagli shock economici e pandemici e ingigantiti dalla fragilità dell’interdipendenza delle società globalizzate.
“Il tempo è denaro” affermò Benjamin Franklin nel suo saggio consiglio a un giovane imprenditore, e, anche se la frase fu rubata a Sir Francis Bacon, rappresentò perfettamente la nuova sensibilità della società della rivoluzione industriale che il tempo è un bene economico e non va sprecato. L’accelerazione del tempo divenne anche valore estetico con il futurismo italiano, “la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità”.
La terza rivoluzione umana, la rivoluzione digitale, ha reso più evidente questa accelerazione del tempo. Viviamo in un tempo in cui tutto è accelerato, persino la risposta al collegamento del nostro personal computer o del nostro cellulare a internet ci sembra lenta se non risponde in tempo reale. La rivoluzione digitale ci ha portato in dote non solo l’accelerazione del tempo, ma anche l’interconnessione e come effetto – o, direbbe qualcuno, come danno – collaterale, la globalizzazione, nonché ha prodotto ulteriori cambiamenti epocali in tutte le componenti umane: lavoro, produzione, economia, finanza, rapporti sociali che hanno avuto come pegno un vero e proprio spaesamento, quello che Bauman ha mirabilmente indicato come la società liquida.
Senza dilungarci troppo in riflessioni filosofiche è indubbio che il combinato disposto di interconnessione, accelerazione del tempo e globalizzazione ha contribuito non poco all’incremento della complessità e all’inevitabile interdipendenza delle società moderne. Ma incremento di complessità e interdipendenza hanno come contrappasso la crescente fragilità delle società digitali.
Come si risponde alle sfide del caos, dell’interdipendenza e dell’accelerazione del tempo? Certamente non con gli stessi strumenti di analisi e l’impostazione dei problemi della società precedenti all’accelerazione del tempo, pena la crisi, condizione mirabilmente descritta da Gramsci laddove sosteneva che “la crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore ed il nuovo non può nascere“.
È indubbio che il recupero di una condivisione di valori cooperativi renderebbe la fragilità intrinseca delle moderne società digitali, globali, accelerate e interconnesse meno problematica. Anche in natura, nella biologia, gli organismi che si basano su sistemi cooperativi sono vincenti. Ed è altrettanto indubbio che, sotto questo profilo, una comunità che si basa sui doveri funziona meglio di una comunità che si fonda sui diritti.
Senza scomodare raffinati giuristi o filosofi, chiunque sa che il diritto e il dovere sono due facce della stessa medaglia, due concetti che si sposano, ma che possono essere anche autosufficienti. Semplificando e cercando di non banalizzare troppo, a ben vedere, però, i due concetti hanno profili e contenuti affatto diversi.
Il diritto senza il dovere, oltre ad avere la necessità di un apparato burocratico complesso per il riconoscimento del proprio perimetro, necessita di maggiori risorse e tempo: il tempo necessario all’apparato burocratico di esercitare le proprie prerogative di giustizia e le risorse e i tempi non sempre disponibili e coerenti con le società complesse, accelerate e interdipendenti, che pongono continuamente quesiti e arbitraggi che non possono essere solo risolti dalla forza.
Siamo giunti, allora, al tramonto della supremazia dei diritti nelle società della rivoluzione digitale?Non esageriamo con le provocazioni, ma poniamoci il problema che sempre più spesso lo sviluppo della complessità dei rapporti economici e sociali rende necessari continui aggiustamenti e arbitraggi non sempre tempestivi e coerenti con la complessità dei sistemi economici e sociali che l’interdipendenza e l’accelerazione del tempo ci hanno imposto come portato della moderna rivoluzione digitale.
La domanda, allora, potrebbe essere proposta in altri termini: come rispondere all’obsolescenza dei meccanismi di riconoscimento dei diritti? Facendo ricorso, sviluppando più e meglio gli strumenti operativi, educativi e amministrativi dell’altra categoria concettuale che governa il complesso vivere civile: il dovere.
Il dovere presenta alcune caratteristiche distintive rispetto al diritto che lo rendono più agile e utilizzabile, anche come categoria generale. Anzitutto, l’autosufficienza. Il dovere è di per sé funzionante, e aggiungeremo noi, funzionale al funzionamento delle moderne società interdipendenti. È proattivo, in quanto non paralizza il normale fluire dei processi siano essi politici, economici o sociali, in attesa degli esiti dell’arbitraggio comunque necessario.
Le comunità che funzionano sui doveri si attivano di per sé e non attendono paralizzate il riconoscimento delle proprie prerogative che, spesso, necessitano di apparati decisori lenti e complessi se paragonati al tempo reale delle società digitali. Una comunità fondata sui doveri ha minor bisogno di continui micro-meccanismi di arbitraggio a carattere rivendicativo e spesso paralizzante. Certo, necessita di comportamenti simmetrici e anch’essa di meccanismi regolatori terzi, ma in ogni caso più funzionali alle moderne società accelerate e interdipendenti.
Sarebbe auspicabile una riflessione profonda sul punto, non solo pedagogica o educativa, che già raggiungerebbe comunque un risultato, ma soprattutto una riflessione sulla necessità di un sempre maggior utilizzo di interventi regolatori che si basassero sul dovere: il dovere di astenersi se si provoca un danno, il dovere di attivarsi se la mia inerzia blocca l’ordinato svolgimento di un’attività di interesse generale.
L’obsolescenza di competenze, infrastrutture fisiche e regolatorie nella società e, nello specifico, del mercato del lavoro impongono reazioni simmetriche e flessibili. Il mismatch, ovvero l’incapacità del rapido riequilibrio della domanda e dell’offerta di lavoro, come conseguenza dell’accelerazione del tempo e del processo di specializzazione sempre più spinta, va governato con una maggiore interdipendenza tra formazione, addestramento e sistema produttivo, senza barriere ideologiche tra istruzione e apparato produttivo.
Se il lavoro è stato, nello scorso secolo, non solo fattore di sostentamento e crescita economica, ma il fattore di maggiore rilevanza per l’integrazione sociale ed economica, va riconosciuto al medesimo anche dignità sociale nella formazione. Fattore questo non sempre in evidenza, se si disconosce alla formazione tecnica un disvalore o una minore dignità.
Le sfide che ci pongono l’accelerazione del tempo, la specializzazione sempre più spinta e la conseguente interdipendenza con le sue fragilità, ci impongono anche nuovi paradigmi sociali come quello della primazia del dovere. Le moderne società interconnesse e interdipendenti funzionerebbero meglio se basate sul riconoscimento del proprio dovere individuale e collettivo. Non sarebbe complesso, ma probabilmente necessario, ripensare norme, provvedimenti, processi organizzativi e comportamenti orientati al dovere.
Senza facili ottimismi o superficiali entusiasmi, è possibile affermare che le comunità che funzionano sul dovere funzionano di più e meglio, a condizione di dimenticare ciò che ci hanno insegnato Oscar Wilde (“il dovere è ciò che pretendiamo dal prossimo, non quello che facciamo noi“) e Marcel Proust (“l’istinto detta il dovere e l’intelligenza fornisce i pretesti per eluderlo“) e di tenere a mente ciò che ci ha suggerito G.B. Shaw: “quando uno stupido fa qualcosa di cui si vergogna, dice sempre che è suo dovere“.
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