Si apre la 44esima edizione del Meeting per l’amicizia fra i popoli. Quarantatré anni sono tanti. Tre Papi. Sei presidenti della Repubblica Italiana. Due generazioni di uomini e di donne. Un mondo veramente cambiato. Algoritmi e Intelligenza Artificiale entrati nella vita quotidiana. E si potrebbe continuare individuando i fattori politici, economici, sociali e antropologici che segnano la differenza tra il 1980, anno in cui il Meeting è iniziato, e l’oggi. E sarebbe indubbiamente un’analisi utile e interessante. Ma poco appassionante. Perché ciò che può ancora appassionare, oggi come 43 anni fa, è una domanda semplice “in fondo in fondo il Meeting a cosa serve? E perché lo facciamo?”.
Si certo, per costruire l’amicizia fra i popoli, come recita la sua denominazione. Ma senza farsi attrarre dalla tentazione di facili irenismi. Senza perdere di vista che abbiamo ancora battaglie da fare. Una innanzitutto, quella per la libertà. I tempi che viviamo sono così scarichi di idealità, così anestetizzanti, così pervasi, come ha ricordato papa Francesco nel suo messaggio al Meeting, da “individualismo e indifferenza, che generano solitudine e tante forme di scarto” che spesso rischiamo anche di perdere la percezione affascinante e drammatica della libertà. L’esercizio della libertà è un rischio, una sofferenza, una responsabilità. Basta guardare la vita di chi ha combattuto, e tuttora combatte per essa, per rendersene conto.
Aveva affermato Kafka: “Si temono la libertà e la responsabilità e quindi si preferisce soffocare dietro le sbarre che ci si è costruiti da sé”. Pasolini chiamava queste sbarre “omologazione” e don Giussani ci ricordava che per Pasolini la parola “omologazione” “indicava il livellamento di tutte le teste, di tutti i cuori, di tutti i metodi di vita, vale a dire l’uccisione di un popolo, perché un popolo è fatto di persone e non c’è una persona uguale all’altra. Un popolo costruisce, gente omologata non crea niente.” È per questo che l’amicizia fra i popoli non è un irenismo, ma un compito, una fatica, e talora anche una sofferenza.
Come ricordava ancora papa Francesco nel suo messaggio, “non bastano i discorsi, occorrono piuttosto ‘gesti concreti e scelte condivise’ che costruiscano una cultura di pace”. Probabilmente se il Meeting ha continuato ad esistere e tanti hanno continuato a partecipare diventandone affezionati amici è per questa esperienza di libertà incontrata e vissuta. Un’esperienza iniziata magari nelle giornate del Meeting e poi diventata una storia, una trama di rapporti, un’amicizia che in tante parti del mondo si è comunicato ad altri. Tanti hanno incontrato nel Meeting un luogo dove potersi esprimere, dove conoscere e dialogare con altri, dove tentare passi di una costruzione comune, dove respirare un’accoglienza gratuita fatta di stima e di valorizzazione di ogni diversità.
La libertà è stata il contenuto di tantissimi incontri, e anche di mostre e spettacoli, ma soprattutto è stata un’esperienza per chi l’ha vissuta. È ancora don Giussani a ricordarci che “la parola che definisce la grandezza dell’uomo rispetto a tutta la realtà è la parola libertà.” È la possibilità di questa grandezza umana che affascina e che mette insieme, che fa il popolo. E il popolo lotta perché la dignità di questa grandezza non venga soffocata dal potere. Il popolo lotta per la libertà del lavoro, dell’educazione, della organizzazione sociale.
Al Meeting abbiamo visto barlumi di un popolo così, gesti di persone desiderose di incontrare storie, vite, religioni, culture diverse. Una libertà così, una volta che la si è vista e personalmente assaporata non la si dimentica più e non si può barattare con qualcosa di meno. Questa è la grande sfida che ancora una volta il Meeting ha di fronte.
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