Esistere, per gli esseri umani, è una questione di “senso”. In fondo è qui che si nasconde – e si rivela – la differenza tra le cose, che sono semplicemente “quello che sono”, e le persone, che esistono perché avvertono il problema del significato del loro essere. Esistere implica sempre, poco o tanto, avere la coscienza, o anche solo la confusa avvertenza che si può essere sé stessi solo affermando la presenza di un significato del vivere. Un significato determinante anche qualora risultasse assente, come l’eco di un vuoto al fondo delle nostre occupazioni quotidiane, che talvolta poi emerge e si esprime come il grido di un’inquieta mancanza.
Scoprire o cercare questo senso dell’esistere, o anche solo avvertirne la mancanza, non è appena l’oggetto di un’analisi intellettuale, ma è una dimensione del nostro stesso stare al mondo. Da esso dipende la possibilità di assumere il proprio essere con simpatia e amicizia, o con risentimento e ostilità. E parlo proprio di amicizia o inimicizia nei confronti di sé stessi ricordando la fulminante osservazione di Aristotele, che cioè l’amicizia verso gli altri dipende dal fatto che “una persona è soprattutto amica a sé stessa e si ha da amare soprattutto sé stessi” (Etica Nicomachea, IX, 8, 1168 b 9-10). Ma ricordando anche la sfida tutt’altro che scontata di Gesù, secondo cui ciascuno è chiamato ad amare il prossimo suo come sé stesso (Mc 12, 31).
Per questo la crisi del senso può valere come un indicatore decisivo per verificare le reali possibilità che si aprono nella condizione umana del nostro tempo. A patto però di non intendere questa crisi solo come una circostanza determinata dalla perdita dei valori della tradizione, ma neanche come una semplice patologia rispetto a una condizione pregressa di “sanità” o in vista di una risoluzione che ripristini lo stato di normalità.
La crisi del senso va intesa in maniera più radicale. Non possiamo intendere questi due termini – il “senso” e la “crisi” – come semplicemente opposti tra loro. Al contrario tra di essi vi è una intima compenetrazione. La crisi è la stoffa segreta del senso. Perché riconoscere il senso delle cose, di sé e del mondo, implica sempre una messa in questione del reale, del dato; una verifica necessaria del tramandato, del ricevuto, dell’acquisito.
E difatti, ogni qual volta noi chiediamo “perché?” – la domanda originaria sul senso delle cose – si produce questa crisi, si avvia o si ri-avvia il nostro bisogno di un nesso tra le cose, tra gli eventi, e ancor di più il nesso tra le cose, gli eventi e la nostra persona.
Quando dunque noi registriamo, e molte volte anche “patiamo” la perdita di una sensatezza dell’esistere – e non possiamo mancare di farlo, sia che giudichiamo questa perdita positivamente sia negativamente – vale la pena prestare attenzione a questo livello più radicale della crisi del senso.
Nel bene o nel male essa evidenzia che il reale si dà alla condizione della nostra libertà. C’è bisogno di un uomo libero perché si dia il senso, c’è bisogno dell’itinerario di scoperta da parte di un “io”, attraverso il dubbio e verso la certezza. Altrimenti non si tratta del “senso”, ma solo di una spiegazione delle cose, nelle diverse flessioni dell’ideologia o di un discorso morale edificante. Il senso è per così dire sempre “personale”: il che non vuol dire affatto che esso sia semplicemente un’idea soggettiva, ma che richiede, per essere, l’assenso e il gusto dell’io. Richiede, appunto, la sua libertà.
Come una volta ha detto Agostino d’Ippona, la verità – nome impegnativo per dire il senso ultimo di sé e del mondo, delle vicende dei singoli come della storia del mondo – ha un test infallibile. Se è la verità quella che scopriamo, che ci raggiunge, essa ci tocca nel nostro intimo e genera un gusto, un piacere, un godimento – gaudium – che non ha paragoni con nessun altro godimento. Il gaudium de veritate (Confessioni, X, 23.33) sta a dire che riconoscere il senso, scoprire il significato delle cose e della vita è la soddisfazione più cercata, anche se segretamente o inconfessabilmente, dal cuore dell’uomo.
Ma per poter riconoscere, proprio in questa crisi, anche una nuova esigenza di senso, occorre avere occhi buoni per capire la posta in gioco, e cioè il senso come bisogno nativo e ancor più come desiderio incoercibile dell’io. Occorre cioè innanzitutto non ridurre affrettatamente i fenomeni critici ai comportamenti morali. Al contrario, è la regola morale, come anche la trasgressione di tale regola, a dipendere da un corpo a corpo con il senso. Come quando gli adolescenti, nel rapporto con i genitori o con chi ha il ruolo di autorità, mettono alla prova, anche attraverso comportamenti estremi, la possibilità ultima del senso per loro, vale a dire il meritare o non meritare di essere amati. Come se si dovesse “meritare” l’amore.
Fino a uno degli esempi oggi più conclamati di questa crisi di un senso prestabilito dell’esistere, come è il fenomeno della disforia di genere. Più ancora, evidentemente, dell’assetto biologico e morale, siamo qui di fronte a una crisi dell’identità personale. Non certo perché il genere non appartenga profondamente all’identità della persona, ma perché il senso del proprio io, del proprio essere al mondo implica una percezione di sé che vien prima, da cui dipende la disforia. Si cerca addirittura di cambiare il proprio sesso e si arriva finanche a sentirsi in un genere diverso da quello biologico (ripeto, prima ancora del giudizio sull’opportunità psicologica e la liceità morale) perché in fondo si è alla ricerca del senso di sé. Anzi perché tutti “siamo” questa ricerca del senso dell’esistere.
Torna alla mente un passaggio sfolgorante del penultimo romanzo di Cormac McCarthy, Il passeggero, nel momento in cui entra in scena Debussy, una trans amica del protagonista, che ha impiegato la sua vita per diventare fino in fondo una donna, da uomo che era. “Tu credi in Dio?” le chiede Bobby (“Dio”, il nome del senso più nativo, più radicale di sé). E lei: “Non so chi o che cosa sia Dio. Ma non credo che tutto questo sia arrivato qui da solo. Io inclusa. Forse tutto evolve esattamente come dicono. Ma se indaghi la fonte, a un’intenzione alla fin fine ci arrivi per forza. Circa un anno più tardi mi sono di nuovo svegliata ed era come se avessi sentito questa voce nel sonno e riuscivo ancora a sentirne l’eco e diceva: se qualcosa non ti avesse amato non saresti qui”. E Bobby pensò che “la bontà divina appare in posti strani. Tieni gli occhi aperti”.
Il senso arriva a noi, più che essere creato da noi. E la nostra libertà, nella crisi del senso, è proprio quella di tenere gli occhi aperti.
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