La transizione alla società post-industriale ha portato, e ancora lo sta facendo, grandi cambiamenti in tutti gli aspetti socioeconomici della vita a partire dalla dimensione del lavoro. Si pensi, in questa prospettiva, al crescente ruolo nell’economia e al conseguente peso in termini di produzione di reddito, di servizi sempre più basati su conoscenza e informazione divenuti veri e propri “driver” di produttività a livello europeo e globale.
Di conseguenza, il livello di istruzione delle persone è diventato, in tale contesto, un fattore sempre più rilevante all’interno delle dinamiche dei diversi mercati del lavoro, ponendo nuovi rischi per i lavoratori, o potenziali tali, poco qualificati. Si pensi, ad esempio, a chi ha abbandonato precocemente la scuola e/o è in possesso solo della terza media. Allo stesso tempo sono emersi, nelle nostre comunità, nuovi rischi legati non tanto direttamente al reddito delle persone, ma alle trasformazioni sociali derivanti da cambiamenti climatici, invecchiamento della popolazione, ripensamento del modello familiare, innovazione tecnologica e processi di automazione sempre più diffusi.
Così mentre il vecchio stato sociale utilizzava principalmente trasferimenti monetari per mitigare i rischi sociali, il nuovo “welfare state” che si sta delineando nel quadro dell’attuale economia globale privilegia l’offerta di servizi mirati per affrontare i nuovi rischi sociali sempre più emergenti.
Si cerca, insomma, per quanto possibile, di anticipare i potenziali rischi, concentrandosi su come attenuare i danni prodotti dalla precarietà lavorativa, ed esistenziale, che le persone possono incontrare per tutta la vita piuttosto che lavorare sulle conseguenze di questi eventi. In definitiva anche un vecchio spot televisivo ci ricordava che prevenire è meglio che curare.
Una strategia che ha portato, quindi, a porre una maggiore attenzione sulle politiche e sui servizi sociali per individui e famiglie con lo scopo di aumentarne la loro “resilienza” di fronte a situazioni impreviste di vulnerabilità derivanti dalle sempre più mutevoli condizioni di lavoro, specialmente per le fasce più deboli della popolazione.
Questo fa immaginare che i servizi sociali debbano, e dovranno, sempre più concentrarsi su misure di sostegno all’istruzione e alla formazione, assieme ai servizi per l’impiego, e lavorare, ad esempio, per creare le condizioni “sociali” per aumentare la presenza femminile nel mercato del lavoro. Viene da chiedersi se anche il nostro Paese si muova coerentemente con questo quadro che emerge da un recente studio della Commissione europea sullo stato dell’arte dei servizi sociali in Europa. Si pensi, in particolare, al ruolo assegnato ai servizi sociali nell’impianto della riforma del Reddito di cittadinanza nel quale i servizi sociali sono destinati, fondamentalmente, a prendersi cura delle famiglie dei “non occupabili” perché vi sono presenti minori, anziani e/o disabili.
Non servirebbe, forse, oltre al mero sostegno economico di “sopravvivenza” un ragionamento più ampio che investa sulle infrastrutture sociali e che renda possibile, ad esempio, con il rafforzamento dei nidi o delle strutture domiciliari, nonché con buona formazione facilmente spendibile e gestibile, ad esempio, anche da mamme single, il ritorno “legale” e “dignitoso” di tante persone attualmente escluse dal mercato del lavoro?
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