Secondo il Wall Street Journal, ci vorranno almeno due anni se non tre per riportare l’inflazione al 2% negli Stati Uniti, ma l’andamento positivo dell’economia Usa, specie sul fronte dell’occupazione, consentirà alla Fed di non avere fretta. L’occupazione tira, ma la corsa dei salari, uno dei frutti della stagione post-Covid, sta frenando. Intanto, il boom dell’Intelligenza Artificiale promette l’avvio di una nuova stagione d’oro di investimenti per l’economia digitale, sufficiente a ridar ossigeno a una nuova stagione di crescita, probabilmente in grado di sopportare l’onere di tassi ben superiori a quelli del recente passato.
Quel che è certo è che gli Usa si accingono a liquidare pur con prudenza la politica dei bassi tassi di interesse che, tra alti e bassi, ha governato i mercati da almeno trent’anni. Dal 2008 in poi, in particolare, le banche centrali hanno innaffiato i mercati di liquidità per evitare che le varie emergenze (Covid e Ucraina) raffreddassero l’economia, fornendo ai Governi e armi per condurre una politica fiscale espansiva.
Una novità epocale come lo fu la svolta degli anni Ottanta quando l’aumento dei tassi servì a sradicare l’inflazione in tutto il mondo. Non a caso l’attesa per il Simposio di Jackson Hole è stata segnata dalla ripresa del dollaro. Oggi come allora, le decisioni Usa si trasmetteranno sull’altra sponda dell’Atlantico La presidente della Bce Christine Lagarde non potrà che prenderne atto nonostante la debolezza della congiuntura economica, specie della Germania che, combinata con la fragilità della situazione geopolitica, rischia di far precipitare l’economia Ue in recessione.
Nel corso dell’ultimo mese si sono moltiplicati i segnali del malessere del made in Germany, alle prese con l’impennata dei costi dell’energia provocati dalla guerra, le difficoltà sul fronte dell’export verso la Cina, ma anche il costo indotto dalla concorrenza degli Usa, capaci di attrarre investimenti dal cuore dell’Europa. Una tempesta perfetta che, per essere affrontata con efficacia, richiederebbe una risposta politica lucida e coerente da parte del Paese leader d’Europa. Al contrario, la coalizione di governo a Berlino appare divisa e incoerente. E l’opinione pubblica ne risente.
Il timore che la Germania sia giunta al capolinea del suo modello di sviluppo si riflette nell’allarme di Die Zeit che titola “Il Made in Germany è finito!” o della popolare Bild :”Sos! La nostra economia sta affondando!”. “Il successo dell’America è il declino della Germania” tuona Die Welt, stabilendo un legame diretto tra gli investimenti in Usa di Volkswagen e dei colossi chimici e il calo della competitività tedesca. Il colpo di grazia, poi, è arrivato però dall’Economist che il 19 agosto scorso ha ripubblicato una copertina del 1999 dal titolo “Germania, il malato d’Europa”.
È una preoccupazione infondata, ma che si basa su una percezione ben diffusa oltre Reno. In realtà, rispetto a un quarto di secolo fa, la Germania, che a suo tempo chiese e ottenne dall’Unione europea la deroga ai vincoli di Maastricht, è in condizioni senz’altro più floride: l’occupazione è ai massimi storici (il 77% dei tedeschi ha un lavoro) e Berlino è l’unico tra i grandi Paesi che può vantare una tripla A per i suoi titoli. Ci sarebbero le condizioni per far da traino a una stagione di rilancio per l’Europa. Ma quel che manca, rispetto alla situazione di fine millennio, è la lucidità politica. Allora, prima Schroder, poi Angela Merkel misero la Germania in condizione di sfruttare al meglio le prospettive della globalizzazione, a partire dl decollo della Cina. Oggi, al contrario, la coalizione a tre di Berlino si divide sulle grandi scelte strategiche, a partire rapporti all’interno dell’Ue.
Come si riflette questa situazione sull’Italia? Il rischio è di dover fare i conti con un concorrente pronto a far leva sulle proprie disponibilità di cassa per attrarre investimenti, anche a costo di danneggiare i vicini. E, su piano monetario, succube di un’impostazione “falco” utile ad attrarre voti in vista delle elezioni, ma miope nei confronti del rilancio dell’economia europea.
È questa la situazione che l’Italia si troverà a fronteggiare alla ripresa d’autunno. Sul fronte dei tassi inutile farsi illusioni: la Fed non muoverà un dito per frenare l’ascesa dei rendimenti di mercato a fronte delle maggiori esigenze del Tesoro Usa. La Bce, condizionata dai falchi, ridurrà al minimo il supporto al collocamento dei Btp su cui incombe l’ipoteca di un decreto sugli extraprofitti delle banche che porterà scarso gettito, ma nuova diffidenza per la finanza made in Italy.
Di qui la facile previsione che la prossima Legge di bilancio dovrà fare i conti con una coperta corta: mancano tra i 25 e i 30 miliardi. Di qui la tentazione di far ricorso alla leva del debito per far quadrare i conti. Una soluzione tecnicamente possibile, disattendendo gli obiettivi di rientro del disavanzo del prossimo anno, l’ultimo con le deroghe alle regole di Maastricht, ultima finestra per sforare senza rischiare la procedura Ue. Ma è una strada ad alto rischio per la credibilità del debito italiano che probabilmente non reggerebbe all’ondata di sfiducia dei mercati. Dopo la sorpresa per il decreto sugli extraprofitti, l’Italia è di nuovo guardata con un certo sospetto: un provvedimento che permetta ai debitori di riacquistare a sconto i bad loans ceduti dalle banche agli operatori specializzati, il più delle volte stranieri, potrebbe innescare un processo negativo in un momento cruciale perla riforma del Patto di stabilità. Le munizioni sono davvero poche. Guai a sprecarle in operazioni di breve respiro.
Meglio, semmai, cogliere l’occasione per rilanciare alcuni temi chiave per il futuro del Paese, anzi dell’Europa. Perché, ad esempio, non concentrare tutti gli sforzi sulla politica delle nascite e del sostegno ai minori rinunciando alla retorica degli interventi sule pensioni? Perché non concentrare le poche risorse disponibili sulla ricerca e l’istruzione per agganciare la rivoluzione digitale? In un mondo concentrato sulle applicazioni dell’Intelligenza Artificiale, il compito dello Stato è di favorire con coraggio l’accelerazione verso il futuro creando quelle ricchezze che potranno dare una mano vera a risolvere in maniera strutturale i problemi dei poveri che magari mangiano meglio dei ricchi come sostiene il ministro Lollobrigida, ma che, a forza di politiche miopi basate sull’elemosina, domani potrebbero proprio non mangiare più.
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