Mancano ancora 14 mesi al prossimo primo martedì di novembre 2024 quando negli Usa si terranno le elezioni presidenziali. Cadrà il 4 novembre, san Carlo Borromeo, ma si intravede poca carità ed è già avviata una campagna che si annuncia rovente.
Saranno delle presidenziali anomale: se – come sembra – si ricandiderà il presidente uscente Joe Biden in casa democratica non ci saranno di fatto primarie, anche se unanimemente il candidato, che nel 2024 avrà 82 anni, appare abbastanza logoro. Per lui sono anche possibili guai giudiziari in famiglia in vista di un improbabile “impeachment” del Congresso, ma è difficile che, ora per allora, qualche democratico oserà sbarragli la strada.
La vera guerra è invece nel Gop (i repubblicani, Grand Old Party) dove il primo quesito – ma fondamentale – è se Trump sarà o meno candidato. Se i suoi guai giudiziari (che per lui sono la sua principale medaglia) gli permetteranno comunque di scendere in campo, ad oggi non ci sarebbe storia, perché sbaraglierebbe ogni altro candidato interno. Se invece non corresse, bloccato dai giudici o obbligato dai notabili del Gop, la guerra per la nomination allora sarà dura, durissima.
Anche il primo dibattito in tv tra gli altri pretendenti repubblicani non ha visto emergere una star, complicando semmai la vita a quello che si riteneva essere il meglio piazzato dei potenziali sfidanti ovvero quel Ron DeSantis, governatore della Florida, che durante il forse troppo affollato dibattito non è emerso dal gruppo.
Sprezzante, Trump aveva snobbato l’incontro perché tanto non ha certo bisogno di farsi pubblicità: odiato o idolatrato, è lui il personaggio-chiave e l’accanimento giudiziario che lo perseguita lo ha trasformato per metà America in una specie di eroe. In realtà si tratta di molto meno della metà, perché se Trump oggi convince la maggioranza degli elettori repubblicani, non attirerebbe simpatie esterne (tutt’altro) e porterebbe anzi ai seggi molti più elettori democratici ansiosi di combatterlo e che altrimenti non andrebbero a votare per Biden.
Una mobilitazione che non avverrebbe in caso di un’altra candidatura repubblicana più tradizionale o moderata e tale da non suscitare la reazione avversaria, tenuto conto che negli Usa vota di solito poco più della metà dell’elettorato.
Il Gop per vincere le presidenziali dovrebbe quindi proporre qualcun altro, che, se fosse schierato oggi contro Trump all’interno del partito, perderebbe sicuramente le primarie. Solo un candidato spalleggiato da Trump – ma con l’ex presidente rimasto in tribuna – darebbe una probabile vittoria ai repubblicani, ma concretizzare questa ipotesi ad oggi sembra molto difficile.
Trump insiste infatti a volersi candidare, a dirsi perseguitato, a dichiarare manomessi gli ultimi risultati elettorali e di essere vittima di una congiura democratica-istituzionale.
Un’esagerazione? Gli americani sono rimasti inorriditi per l’assalto al Campidoglio, ma molti cominciano a pensare che effettivamente con i nuovi sistemi elettorali – postali e non certificati – ci sia la possibilità concreta di brogli e che quindi anche Trump abbia delle ragioni.
Intanto mercoledì scorso, al primo appuntamento organizzato da Fox News (l’unica emittente nazionale Usa dichiaratamente pro repubblicana) si sono comunque incontrati/scontrati Asa Hutchinson, governatore dell’Arkansas, quello della Florida Ron DeSantis, Chris Christie (ex governatore del New Jersey), l’imprenditore Vivek Ramaswamy, l’ex vicepresidente di Trump Mike Pence, Doug Burgum, governatore del North Dakota, l’ex ambasciatrice all’Onu e governatrice del South Carolina, Nikki Haley (unica donna presente al dibattito) e il senatore Tim Scott. Platea troppo affollata per emergere, ma dove si potevano comunque notare significative differenze.
Nonostante l’assenza di uno showman come Trump, il dibattito è stato infatti tutt’altro che tranquillo: gli sfidanti si sono scontrati sul diritto all’aborto, sul sostegno degli Stati Uniti all’Ucraina e sul tipo di esperienza necessaria per guidare la Casa Bianca.
Sia DeSantis che Ramaswamy hanno affermato di essere contrari a destinare ulteriori finanziamenti all’Ucraina, sostenendo che i soldi dovrebbero essere spesi per proteggere il confine sud degli Stati Uniti dal traffico di droga e di esseri umani. Di tutt’altro avviso Christie, l’ex vicepresidente Pence e l’ex ambasciatrice Haley, che hanno invece ribadito il loro convinto sostegno all’Ucraina come un obbligo morale e un imperativo di sicurezza nazionale.
Alla fine i sondaggi dicono che gli unici ad emergere sarebbero stati Haley e l’ex vice-presidente Pence, ma essendoci un palcoscenico troppo affollato è difficile un giudizio comparativo. Ha molto incuriosito Vivek Ramaswamy, figlio di immigrati indiani, imprenditore di successo e in crescita nei sondaggi (ma è solo all’8%), di religione indù e dal nome quasi impronunciabile, mentre DeSantis (15% nei sondaggi) è apparso avulso dal gioco e non ha quindi catalizzato grandi consensi.
Ma nel bene e nel male tutti guardano a Trump, che tra i repubblicani è ben sopra il 50% dei consensi. Più che una campagna elettorale sembra iniziato un serial televisivo.
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