C’è un’opera preziosa di Lev Tolstoj di scottante attualità. Si tratta di Guerra e rivoluzione (Feltrinelli 2015) che ha avuto una terza edizione lo scorso anno. Il volume, curato da Roberto Coaloa, fu scritto dal grande scrittore russo durante il conflitto russo-giapponese (1904-1905) e all’inizio della prima rivoluzione russa. Il testo ha avuto una storia molto travagliata. È stato stampato, infatti, in Francia nel 1906, grazie all’editore parigino Eugène Fasquelle. La pubblicazione, incoraggiata dal tolstojano Vladimir Čertkov, andò subito esaurita, e sulla sua base è stata fatta la traduzione italiana, grazie a Coaloa. L’opera non è mai stata pubblicata in inglese o in russo. La censura zarista, peraltro, non avrebbe mai permesso l’uscita di un testo che rappresenta la più ferma condanna di ogni tirannia e di ogni macchina governativa.
Nella postfazione il saggista italiano, che dedica la sua fatica alla memoria di Pier Cesare Bori, sottolinea l’importanza dell’altro Tolstoj, quello meno conosciuto dal grande pubblico: il Tolstoj politico. Mette in rilievo la sua conoscenza del popolo russo e il suo sguardo profetico. Nella Conclusione lo scrittore russo, infatti, afferma che “La maggioranza dei russi vede nettamente che la causa di tutti i suoi mali proviene dalla sua sottomissione ai poteri pubblici. Essi devono risolversi, o a non essere più uomini liberi e ragionevoli, o a non obbedire al governo”.
Tolstoj, influenzato da Rousseau, fa una radicale critica a ogni tipo di potere. La macchina governativa, per la sua stessa artificiale natura, per funzionare non può fare a meno di Machiavelli. L’uomo perciò perde la sua identità, diventando di volta in volta bestia: volpe, lupo o leone. Accade così che, entro tali rapporti di forza, gruppi di uomini cedano a gruppi sempre più ristretti e più forti la loro volontà. Tale cessione sconsiderata della propria volontà porta però gli uomini al potere a utilizzare lo sciame indistinto di tante piccole volontà polverizzate e concentrate per disegni opportunistici e imperialistici. In tali disegni rientra l’ammazzare, per essere più forti, più grandi, più potenti.
La critica di Tolstoj, a questo punto, diventa radicale, prendendo di mira la stessa storia russa e quella europea. Marchia con durezza l’operato degli zar. Definisce squilibrato Ivan il Terribile, avvinazzato e bestiale Pietro I, ignorante vivandiera Caterina I, crudele e ignorante Nicola I, poco intelligente Alessandro II, stupido Alessandro III. I suoi giudizi sono altrettanto corrosivi nei confronti dei potenti europei. Il dissoluto Enrico VIII d’Inghilterra si è creato una propria confessione religiosa, portando alla morte milioni di uomini. Cromwell è uno scellerato ipocrita che ha vinto contro un altro ipocrita, Carlo I. Napoleone per le sue manie di grandezza ha cosparso l’Europa di cadaveri. Anche l’Italia ha fatto la sua parte con l’inutile guerra all’Abissinia.
La penna di Tolstoj sembra in certi momenti una sciabola che non risparmia nessuno e certamente non può essere condivisa la sua posizione sull’inutilità dello Stato. Non si può attribuire, peraltro, il male solo ai potenti, pensando che coloro che sono lontani dagli incarichi non vivano il dramma della scelta esistenziale di fronte alla vita o di tentazioni distruttive nel loro privato. Tuttavia la sua affermazione sul fatto che sono in pochi a decidere la sorte delle moltitudini è profondamente vera. E in riferimento alla guerra russo-giapponese è chiara: si tratta di due uomini, lo zar e il Mikado. E d’altro canto la sofferta tensione ideale che porta Tolstoj a vedere la totale e insensata cecità del cupio dissolvi implica una domanda decisiva: si può uccidere un altro uomo per fare grande la macchina governativa? Si può accettare che lo smembramento del volto dell’altro sia benedetto?
Lo scrittore, nel suo fermento interiore, indica a tutti una strada percorribile, quella dalla tracciata dal filosofo francese Étienne de La Boétie nel Discorso sulla servitù volontaria. Il filosofo sostiene che è lo stesso popolo che si taglia la gola e che si sottomette al giogo per pura comodità e passività. È necessario, invece, che ognuno, con un atto libero e personale, recuperi la propria volontà, perché una semplice scintilla può provocare un incendio. “Allo stesso modo i tiranni quanto più saccheggiano tanto più pretendono, quanto più rovinano e distruggono tanto più ricevono, quanto più li servono, tanto più si fortificano”.
Allora, si tratta di non assecondare più la violenza governativa, di non servirla, di non legittimarla. Gli uomini devono essere risoluti a non servire più. Non si tratta di andare a uno scontro impari contro il tiranno, ma di non sostenerlo mai più, di boicottarlo “e lo vedrete, come un grande colosso cui sia stata sottratta la base, cadere d’un pezzo e rompersi”. Per Tolstoj, insomma, il dissenso è la via principale per affrontare i tempi bui della tirannia di ogni tempo e di ogni luogo.
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