Tra il popolo di Cernobbio, versione nazionale del popolo di Davos, circola una domanda un po’ maligna e un po’ sincera: come mai Giorgia Meloni non è venuta? L’anno scorso era stata protagonista del rituale evento sul Lago di Como, un successo tra quel pubblico, spesso definito l’élite italiana degli affari, che preannunciava il successo elettorale. Anche quest’anno era stata invitata e come presidente del Consiglio, la sua presenza era prevista fino a due giorni prima, poi a rappresentare il governo è toccato a Giancarlo Giorgetti, il cireneo destinato a caricarsi di tutte le croci d’autunno.
Nel cercare risposte c’è chi evoca la gragnola di imprevisti capitati (il più terribile l’incidente ferroviario di Brandizzo), chi la stressante serie di viaggi e impegni nazionali e internazionali, ma c’è anche chi insinua che conoscesse in anticipo gli ultimi dati sull’economia italiana. Le cose non vanno affatto bene, l’Istat peggiora i suoi calcoli e il prodotto lordo nel secondo semestre è sceso dello 0,4% rispetto al trimestre precedente invece che -0,3. Il confronto con lo stesso periodo dello scorso anno passa da +0,6 a +0,4%.
A questo punto, per raggiungere l’obiettivo di una crescita pari a un punto percentuale, occorre che l’economia si metta a correre nell’ultima parte dell’anno. Prima di fasciarci la testa aspettiamo i dati dell’estate che potrebbero essere sostenuti dal turismo, anche se finora quello che viene enfaticamente chiamato l’oro nero d’Italia ha deluso. Nei mesi che vanno da maggio a giugno il Pil nel terziario è sceso dello 0,1%, ma ha fatto peggio il comparto commercio, alloggio, trasporti eccetera, specchio dell’attività turistica (-0,4%). L’agricoltura segna un calo dell’1,3%, l’industria -1,4% con una caduta del 3,2% dell’edilizia anche per la stretta sul superbonus. Consumi delle famiglie e delle imprese, prestiti alle aziende (-3,7%), investimenti, esportazioni, tutto è andato male.
Non si può più dire che l’Italia corra più degli altri Paesi europei, perché la Francia è cresciuta dello 0,5% e la Spagna dello 0,4%, anche se l’intera Eurolandia batte il passo, mentre la Germania è ferma. In questo quadro, che evoca lo spettro della coppia stagnazione più inflazione, l’Italia è tornata a una triste normalità: crescita bassa e maggiore difficoltà a far quadrare i conti pubblici. Non c’è allarme, lo spread è tranquillo, tuttavia deficit e debito sono sotto osservazione anche perché incombono due appuntamenti decisivi: la legge di bilancio e la riforma del Patto di stabilità.
Entro il 27 settembre Giorgetti deve presentare la Nadef (nota di aggiornamento al Def) che fissa la cornice per la prossima finanziaria. Se il terzo trimestre non mostrerà un’inversione di tendenza, i conti andranno rifatti, a cominciare dalla previsione per il 2024 ormai troppo ottimistica (+1,5%) che porta con sé una revisione del deficit sul Pil: si prevede che scenda dal 4,5% attuale al 3,7%. Circolano già stime ed esercizi contabili, secondo i quali la minore crescita dovrebbe far salire il disavanzo al 4%. Meglio non azzardare altre cifre, ma una cosa è chiara: il Governo dovrà concentrare i suoi interventi su pochi obiettivi, quelli che hanno un impatto maggiore e più diretto sulla congiuntura.
Già un aumento dell’1% quest’anno si dimostrerebbe insufficiente. Il Pil ha chiuso il 2022 a 1.909 miliardi, un punto in più in termini quantitativi e un’inflazione prevista al 4% porteranno la crescita nominale a 5 punti, il che vuol dire che verranno aggiunti poco più di 95 miliardi di euro. Per avere un’idea delle necessità nazionali, basti dire che bisognerà pagare 80 miliardi per gli interessi sul debito pubblico. O torna un buon ritmo di sviluppo o la coperta diventerà sempre più corta.
Il Governo, dunque, dovrebbe rinunciare ai provvedimenti a pioggia, ai micro e macro-sostegni, agli aiuti decisi in base alla pressione delle lobby. Si tratta di puntare su poche cose fondamentali, due innanzitutto: la riduzione del cuneo fiscale e il sostegno ai redditi più bassi. In questo modo si aiutano i lavoratori e le imprese, mentre si impedisce una caduta della domanda interna e un aumento del disagio sociale. Meglio poco, ma meglio. E gli interventi sul costo del lavoro potrebbero essere più ampi dei 9-10 miliardi previsti, se accompagnati da riduzioni di spese non essenziali.
La prossima legge di bilancio sarà un test di credibilità e affidabilità, anche in vista della riforma del Patto di stabilità. Il timore maggiore è che un mancato accordo porti al ripristino delle vecchie regole e molti chiedono un nuovo rinvio, davvero difficile da ottenere. C’è un consenso europeistico, per così dire, a favore della proposta Gentiloni che non cambia i parametri di fondo (3% del Pil per il deficit e 60% per il debito), però introduce un meccanismo di contrattazione permanente che allunga i tempi dell’aggiustamento (da quattro a sette anni) e consente un’ampia flessibilità. Ma sarà la prossima Commissione a guidare il gioco e non è affatto detto che le elezioni del giugno 2024 facciano vincere le colombe ed emergano equilibri politici più favorevoli all’Italia. La questione è aperta e diventerà centrale nel dibattito politico a partire da questo mese. Ma una cosa è già chiara: bisogna crescere di più con i conti in ordine perché è nell’interesse degli italiani, non perché “lo chiede l’Europa”.
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