Nell’incontro al Meeting di Rimini con il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara “Una scuola per il futuro” abbiamo sentito una cauta aria di decentralizzazione. Quello che La Pira – da lui citato – diceva dello Stato: “Al centro c’è la persona: lo Stato è al suo servizio”, potrebbe valere per la scuola: “Al centro ci sono studenti e insegnanti (e la società civile), il ministero è al loro servizio”.
Il centro delle sue preoccupazioni pare quello di ridare autorevolezza a una figura che dal ’68 in poi ha sempre più perso smalto e prestigio, fino agli incresciosi episodi di dileggio, contestazione nel merito dei giudizi e fin violenza, emersi nell’anno scolastico passato; fatti che non sono solo episodi privati ma vanno interpretati come un danno se non altro di immagine per l’istituzione.
Di un po’ di rigore si sente il bisogno: non si tratta di introdurre un clima repressivo, ma di dare il giusto valore alle cose. Non può esserci apprendimento senza rispetto, ordine, un clima sfidante di serietà e concentrazione. Sarebbe una vera rivoluzione se questo significasse uno stop alla pratica del ricorso indiscriminato al Tar, che di fatto tiene gli insegnanti e i presidi sotto scacco, determinati più dalla correttezza delle procedure che non dall’efficacia del percorso formativo.
Il ministro ha avuto anche parole di valorizzazione per la creatività degli insegnanti: è da loro che può venire una ripresa di fascino della scuola, capace di attrarre i giovani. Sempre che – come ha suggerito nella sua domanda Carlo Di Michele – si inverta la tendenza per cui la burocrazia tiene gli insegnanti impegnati in tutto tranne che nella didattica. Del resto, i soli in grado di opporre qualcosa di positivo al clima degenerato sono proprio gli insegnanti, con la loro inventiva, la voglia di raccontare quello che fanno, la ricerca di nuove strade innovative – non per forza tecnologiche, si badi, come ha precisato il ministro. L’innovazione è soprattutto la capacità di iniziativa spontanea degli insegnanti per raggiungere i loro studenti.
L’incontro, del 22 dal titolo “La scuola si racconta. Nuovi linguaggi per un dialogo con i giovani”, ne era già stata una testimonianza: 5 insegnanti di diversi gradi scolastici hanno raccontato un’innovazione possibile, da quella più orientata alla tecnologia o all’attivismo pedagogico a quella apparentemente più ordinaria, fatta però di presa in carico dei bisogni degli studenti. Tutte le diverse proposte, specchio dell’originalità di progetti delle diverse scuole (come ha notato Tommaso Agasisti), si caratterizzano per essere prima di tutto esperienze di positività attraverso un lavoro che si fa insieme. Questo sicuramente mobilita i ragazzi.
Come “mobilitare” i ragazzi (uno dei focus dell’incontro)? Non si tratta tanto di alimentare l’elemento emotivo (gli studenti si appassionano, si sentono coinvolti): è una riduzione parallela a quella che vuole il bravo prof. semplicemente come appassionato ed entusiasta. Evidentemente fra insegnante e studente c’è una “amicizia”, nel senso di condivisione dell’umano. Tuttavia, lo studente è mobilitato quando si accorge di crescere, di “guadagnare” un di più di umanità attraverso la conoscenza. Per questo conta l’attitudine professionale del prof. che si “inventa cose” pedagogicamente efficaci, cioè capaci di far procedere l’altro in un cammino coerente e finalizzato. Il bravo prof. sa condurre i ragazzi in un percorso sistematico che li fa crescere. Questo mobilita lo studente perché lo attrae verso un bene possibile e intravisto, sostiene il lavoro e l’affezione al luogo dove questo avviene.
Che vuol dire un cammino, un percorso in crescendo?
La scuola italiana si dibatte fra due poli assolutamente distanti: o l’inventiva di cui abbiamo sentito, oppure le “due interrogazioni a quadrimestre” (più quelle di recupero); o i progetti megagalattici o la media matematica imposta dal registro elettronico. Non è un crescendo “fare il programma” argomento per argomento senza interessarsi se in classe “succede” qualcosa di interessante per le persone che ci vivono 5 ore al giorno.
Un percorso in crescita richiede invece una visione prospettica nel tempo. Lo sanno bene gli insegnanti dell’infanzia e della primaria. E anche quelli di lingue e matematica, dove il percorso è orientato (se non sai A non puoi fare B), mentre altre materie sembrano procedere per accumulo. Chiediamoci: durante l’anno ci sono dei salti di qualità? O si aggiungono capitoli a capitoli, verifiche a verifiche? Se trattando dei contenuti ci fossero delle tappe da superare, non sarebbe possibile all’alunno studiare l’ultimo mese di scuola!
Per esempio, durante l’anno, cresce anche la capacità di ragionare, di stare di fronte al dato? Diventa più chiara la logica della disciplina come metodo operativo e come modo di porre le domande alla realtà? o anche semplicemente la capacità di esprimersi a voce e per iscritto? (Sono le voci del profilo in uscita dei licei).
Inoltre: crescono la capacità di impegno e persistenza, la fiducia nelle proprie possibilità, la coscienza della rilevanza di quello che si fa? (Sono alcune delle competenze “non cognitive” tornate di attualità con l’approvazione alla Camera della relativa legge, il 3 agosto scorso). Impegno e persistenza evidentemente dipendono dal percorso sensato di cui sopra; la fiducia nelle proprie possibilità di successo dipende dal fatto che si propongano allo studente passi sfidanti, senza però che si deprima (invece spesso si oscilla fra la noia e l’ansia); la motivazione e l’orientamento all’obiettivo sono sostenuti dalla percezione di un di più di umanità (che non è solo prendere un buon voto).
A me pare certe volte che la scuola non solo non tenga presenti questi obiettivi, ma anzi li scoraggi con certe sue routines.
Il bravo insegnante è quello che sa rispondere ai bisogni reali degli studenti, soprattutto quello di essere guidati in un percorso di crescita sentito come positivo per sé. Vanno tenuti sempre presenti: il bisogno dello studente di essere accolto e valorizzato, il che richiede al prof. di “tifare per” lui, di dare un feedback propositivo, di indicare strade di miglioramento personalizzate: pensiamo a come restituiamo i voti, se come feedback e traccia di un cammino o come giudizio, specialmente nella scuola secondaria. Poi il suo bisogno di appropriarsi di quello che fa: il “sapere” non può ridursi a memorizzare il libro di testo. Infine il suo bisogno di ragionevolezza davanti a quello che studia: la grammatica può essere insegnata in modo molto irragionevole, la matematica può essere fatta in modo meccanico, eccetera.
Se la scuola rispondesse ai bisogni degli studenti sarebbe già una grande rivoluzione. Spesso invece risponde ad altre logiche (ministeriali, sindacali, burocratiche), che lo studente subisce passivamente: e non basta l’approccio laboratoriale per sgominarle.
Perché la creatività didattica si sviluppi e l’efficacia pedagogica cresca, sono convinta che sia importante investire sul protagonismo degli insegnanti, sulla riflessione critica di ciascuno sul proprio operato, come avviene all’interno delle associazioni professionali, fra cui Diesse.
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