Verso il nuovo “dopoguerra”

È ripartito un confronto politico-mediatico sulle privatizzazioni. Oltre Mps, c'è in gioco una riflessione più generale sul sistema-Paese e le grandi reti

Accenna a ripartire un confronto politico-mediatico sulle privatizzazioni. Ad alcuni appare fuori tempo e fuori luogo. Lo Stato italiano non si è ancora disfatto di tutte le sue proprietà, ma ha certamente venduto gran parte dei suoi gioielli già un quarto di secolo fa. E poi ha già iniziato a muoversi a pendolo in direzione opposta: ha riacquistato Autostrade, sta ricomprando la rete Tim e ha preso ad esercitare i “golden power” sulla proprietà e gestione di imprese di cosiddetto interesse nazionale. L’epoca d’oro delle privatizzazioni appare davvero lontana, con il ritorno forzato e prepotente di tutti gli Stati occidentali nei vari mercati, con la pandemia e ora la crisi geopolitica. Perché allora in Italia si torna a parlare di privatizzazioni?

Sono visibili due ragioni contingenti e in parte collegate: il caso Mps e la prossima legge di bilancio (anzi: la gestione delle finanze pubbliche a medio termine, in vista del ripristino dei parametri di stabilità Ue). Il bilancio pubblico ha eterna fame di risorse: come ha dimostrato anche il preannunciato blitz di una tassazione straordinaria sugli extra-utili delle banche. L’incasso stimato (probabilmente in eccesso) da quest’ultimo provvedimento è di 2-3 miliardi. È una cifra confrontabile con quella che lo Stato realizzerebbe – a prezzi di mercato correnti – vendendo il 64% del Monte, salvato nel 2016 e ricapitalizzato l’anno scorso.

È da sette anni che la Ue attende la de-pubblicizzazione della banca senese, peraltro concedendo sempre rinvii (in Germania tuttavia lo Stato rimane grande azionista di Commerzbank quattordici anni dopo il salvataggio pubblico). Ora però è Roma che sembra voler riaprire il dossier e accelerare, cogliendo, con la classica fava singola, una pluralità di piccioni o almeno uno di essi. Forse la cessione in blocco per cassa della quota pubblica non è la più realistica: lo appare invece la ripresa dei colloqui con grandi banche italiane (UniCredit o BancoBpm) o investitori esteri per una definitiva sistemazione del Monte.

In ogni caso, rilanciare la narrazione privatizzatoria appare politicamente indispensabile, anche se essa non è mai stata nelle corde di FdI e in fondo neppure della Lega (che nell’originario “contratto di governo” con M5s concordava su un’aggregazione pubblica fra Mps e Cdp). Il Pd, d’altronde, appare pure scettico: il Monte rappresenta il più pesante scheletro nel suo armadio di gestore di grandi imprese pubbliche. È comunque tutt’altro che teorico che lo Stato italiano debba ricorrere nei prossimi anni a qualche privatizzazione “pronta cassa”. E ragionarci per tempo (lanciando segnali alla Ue e ai mercati) può essere opportuno: soprattutto nei giorni in cui sui media l’eredità del superbonus ha preso la forma di un gigantesco macigno da 11 zeri sui conti pubblici.

Nel frattempo, nel portafoglio azionario pubblico (Stato e Cdp) restano anzitutto quote di controllo di Eni ed Enel. Ulteriori dismissioni qui appaiono improponibili: i due colossi energetici appaiono il doppio veicolo attraverso cui si muoverà la vera “transizione energetica” italiana (compreso il rilancio del nucleare). Idem Leonardo e Fincantieri: gruppi di “interesse nazionale” per eccellenza, in epoca di tendenziale rilancio degli investimenti per la difesa hi-tech, italiana e internazionale

Fra Mef e Cdp c’è ancora un 65% delle Poste, dopo un primo collocamento di successo nel 2015, con un titolo che è oggi abbondantemente sopra il prezzo Ipo e che ha sempre distribuito cedole. Il piazzamento di una seconda tranche appare praticabile, ma di per sé porterebbe solo un palliativo a deficit e debito. E non è affatto escluso che le Poste – di fatto il primo operatore bancario nazionale nel retail – possano rientrare in qualche combinazione di riassetto creditizio.

Nel portafoglio diretto o indiretto, statale o degli enti locali, c’è parecchio altro: basti pensare alle utilities oppure al corposo bouquet di quote nella rete aeroportuale italiana detenuti da F2I (Cdp). Tutto appetibile per il mercato, ma anche tutto o quasi ricco di “valori-Paese”, funzionale ad un neo-sovranismo economico che sta ri-attecchendo perfino negli Usa.

Forse il nuovo dibattito sulle privatizzazioni nasconde la sua paradossale utilità in un’esigenza opposta. Vuol dire ragionare sulla ripubblicizzazione di Autostrade ora in chiave Pnrr, stilando un bilancio dei 25 anni di monopolio privato. Vuol dire riflettere sull’altra “chiusura di cerchio” in corso su Tim. Cioè, in via generale: dopo una lunga stagione di costruzione di infrastrutture moderne nel dopoguerra keynesiano del secolo scorso e la loro “mercatizzazione” nell’ultimo decennio, alla vigilia di un nuovo “dopoguerra”, nel pieno di un secolo del tutto “nuovo”, quali sono i mix migliori di pubblico e privato? Nelle grandi reti fisiche e in quelle digitali. Anche nella finanza, nella scuola e nella sanità.

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