Questo racconto nasce da tre fatti: a fine giugno un italiano sui 50 anni si è suicidato nella casa di reclusione di Opera, poi il 7 agosto, un altro, poco più anziano. Verso il 20 di agosto, altri due (o tre? le notizie sono incerte). Non si può far molto e certamente nulla dopo che è successo. Scrivere un altro articolo sul sovraffollamento, sulla mancanza di attività, sull’assistenza sanitaria o psicologica o sulle strutture a che servirebbe? Proviamo con un racconto.
Fa un caldo maledetto. Sudo a far niente, mi cola sulla schiena, dalla faccia. Non gira un filo d’aria in questo dannato posto in cui mi hanno chiuso.
“Hamed!” Qualcuno chiama dalla porta ma non gli rispondo. Chissenefrega. E poi non so quale nome hanno, qua. Non riesco nemmeno a ricordarmi come mi chiamo davvero, con tutti quelli che ho usato in questi anni: Youssef, Mohammed, Amin, Rashid, alias come dicono i poliziotti. Nessuno, dico io.
Ora mi hanno beccato di nuovo. Per quattro o 5 palline di roba mi hanno dato anni di galera. Recidivo. Già. E come cavolo si fa a non essere recidivi!
Quando sono arrivato dal Marocco avevo mille speranze. Dopo la morte di mio padre là non c’era niente per me. Mia mamma si è svenata per pagarmi il viaggio, tutti al paese dicevano: “Vai in italia, vai in Italia”. E sono venuto.
Prima mi hanno sbattuto di qua e di là nei centri di accoglienza, dove non accolgono proprio nessuno. Dovevo scappare. Per un po’ mi sono nascosto vicino a Napoli, lavoravo nei campi, ma era uno schifo. Le ho prese, una volta, da un gruppo di africani neri che mi trattavano come una merda. Niente documenti veri, niente lavoro. Sono andato a Milano, lì ho incontrato i fratelli. “Vieni con noi”, hanno detto. Mi hanno dato una carta di identità, un permesso di soggiorno, un lavoro da carrozziere. Tutto falso. Mi mandavano a rubare dalle automobili, portavo in giro un po’ di marijuana, il fumo. Divertente, poca fatica, molti soldi. Mi hanno preso una volta, poi un’altra, intanto ho assaggiato la cocaina: forte.
Ma che caldo. Mi sto sciogliendo. Ieri ho di nuovo fatto a botte in sezione – mi hanno gonfiato, a dir la verità – perché un maiale prendeva in giro quelle due poveracce che si sono appena ammazzate a Torino. Mi sono arrabbiato: altre due, dicevano quei bastardi, vedrai che quest’anno arriviamo a 100!
Volevo ammazzarli io, ma adesso sono qua, in isolamento, a morir di caldo in ’sto buco, con una finestra da cui non entra un filo d’aria. Ho dolori dappertutto, un occhio chiuso. Mi fa male, mi fa un male cane il petto, dove l’hanno riempito di calci quando ero a terra. Sono stanco.
Voglio chiamare mia madre, che ho saputo si è ammalata seriamente. Ho chiesto di farlo ancora, anche se l’ho chiamata l’altro ieri. Ma non mi lasciano, non si può.
C’è un’afa pazzesca. Ho visto che in tv dicevano che è l’estate più calda da decenni e la chiamavano la bolla africana. Ma che ne sanno: in Marocco c’è caldo, ma non è così! Basta evitare il sole diretto, qui ti si appiccica addosso e non te ne liberi. Sudo, sudo e basta, mi faccio schifo da solo. Almeno potessi farmi una striscia.
La doccia! Voglio fare una doccia! Inutile gridare, inutile chiedere. Non ti tocca, non è ora, non si può. Regole. Sempre regole.
E parlare con qualcuno? Non ci dovrebbe essere una psicologa? L’ultima volta che sono stato qui ho fatto delle chiacchierate con una tipa simpatica. Poteva essere mia madre, era brava, sembrava amichevole, chissà se sa che sono tornato. Ho provato a chiedere, ma niente.
La verità è che va male. Va proprio male. In quasi 10 anni, da quando ho lasciato casa mia, niente. “Cosa fai?”, mi ha chiesto uno in Questura. “Non faccio niente”.
Che caldo, non ne posso più. Basta. E dopo? Se esco, quando esco, posso solo ricominciare. Ho troppo caldo. Non serve quella finestra, non c’è aria.
Però, è alta. Forse un modo per usarla ci sarebbe. Quei farabutti diranno che sono “un altro”. Si fottano.
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