Le parole, anzi le formule, sono importanti in politica e in diplomazia, lo sono ancor di più se l’interlocutore è cinese. La strategia di espansione inaugurata da Xi Jinping avviene sotto l’etichetta chiamata Belt and Road Initiative altrimenti conosciuta come la nuova Via della Seta. L’uscita soft dell’Italia da quella che appare una pericolosa gabbia strategica usa la maschera del Partenariato strategico globale; PSG invece di BRI per gli amanti degli acronimi. Questo complicato giro di definizioni vuole essere la scorciatoia per separare il vincolo politico stretto durante il governo gialloverde, su in iniziativa del Movimento 5 Selle, dal legame economico che appare non solo difficile da spezzare, ma anche costoso e controproducente.
Al termine dell’incontro tra Giorgia Meloni e il premier cinese Li Qiang svoltosi a Dehli durante il G20, lo scambio di etichette sembra aver trovato una base comune per un negoziato che sarà comunque molto difficile. “Italia e Cina condividono un Partenariato strategico globale di cui il prossimo anno ricorrerà il ventesimo anniversario e che costituirà il faro per l’avanzamento dell’amicizia e della collaborazione tra le due nazioni in ogni settore di comune interesse”, ha detto Giorgia Meloni. Il PSG era stato lanciato nel 2004 da Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio italiano, e da Wen Jiabao, primo ministro cinese.
Dunque addio Conte, si torna a Berlusconi? Da quando è apparso chiaro che l’Italia aveva bisogno di cambiare passo, le diplomazie parallele hanno cercato un onorevole compromesso che non provocasse una ritorsione da parte di Pechino e nello stresso tempo consentisse a Roma di uscire da una posizione sempre più imbarazzante, vista la posizione degli Stati Uniti. La Cina dal canto suo non vuole chiudere la porta a un mercato ricco e a un Paese importante per l’economia e il suo soft power (non è mancata la retorica sui rapporti millenari tra le due grandi e antiche civiltà).
Cosa nasconde questa formula, messa a punto durante gli incontri di settimana scorsa tra i ministri degli esteri Antonio Tajani e Wang Yi, è tutto da vedere. Giorgia Meloni si è mossa bene sul filo sottile tra rottura e continuità, inoltre ha ragione a coinvolgere il Parlamento chiedendo il voto su una importante scelta di politica estera (cosa che il Governo Conte 1 si è guardato bene dal fare nel marzo 2019 quando Xi Jinping venne in Italia e fu firmato il memorandum of understanding). Ma dalle parole adesso si passa ai fatti.
Tajani ha detto che la BRI non ha dato i frutti sperati, visto che è quasi raddoppiato il deficit nella bilancia commerciale a scapito dell’Italia, quindi il PSG è più importante. Tuttavia non dobbiamo dimenticare che non è stata la Via della Seta ad aprire ai cinesi le porte della Pirelli o delle reti elettriche, bensì proprio quel Partenariato strategico che ha esteso e rafforzato il reticolo di affari tra Italia e Cina. A fine 2019 risultano direttamente presenti in Italia 405 gruppi cinesi, di cui 270 della Repubblica Popolare e 135 con sede principale a Hong Kong. Le aziende italiane partecipate da tali gruppi sono in tutto 760 e la loro occupazione è di poco superiore a 43.700 unità, con un giro d’affari di oltre 25,2 miliardi di euro.
Le due partecipazioni cinesi più delicate riguardano State Grid e Sinochem. La prima possiede una quota del 35% nella finanziaria che controlla le reti energetiche elettriche, la Cdp Reti Spa alla quale fanno capo Snam, Terna, Italgas. La seconda ha la maggioranza della Pirelli, anche se il governo ha esercitato il golden power e ha spinto per separare la proprietà dalla gestione che fa capo a Marco Tronchetti Provera. Inoltre, la Shangai Electric Corporation ha comprato nel 2014 il 40% di Ansaldo Energia, una quota scesa nel 2020 al 12,4% perché la Cdp ha ricapitalizzato l’azienda genovese. Per riprendere il pieno controllo delle reti elettriche e indennizzare State Grid ci vorrebbero circa 3 miliardi di euro. Il patto scade a novembre, ma verrà rinnovato. Pacchetti di Eni, Tim, Enel e Prysmian sono sotto il controllo della People’s Bank of China, la banca centrale della Repubblica Popolare. È aperta la questione sul futuro del porto di Trieste, dove Pechino entra attraverso la società del porto di Amburgo.
Tra le imprese italiane con partecipazioni cinesi ci sono Intesa SanPaolo, Moncler, Ferragamo, Prima Industrie. La distribuzione territoriale delle imprese partecipate cinesi si concentra per quattro quinti nelle regioni settentrionali. Spicca la Lombardia, che ospita 258 imprese, pari a oltre il 46% del totale. Seguono Lazio, Emilia-Romagna, Piemonte e Veneto.
Non si tratta certo di espellere i capitali cinesi: impossibile oltre che sbagliato. Occorre fare in modo che aziende dipendenti dal Partito comunista cinese non assumano il comando in imprese strategiche italiane. Oggi c’è senza dubbio più attenzione ed esistono gli strumenti ad hoc in Italia e nella Unione Europea. Sarà comunque un percorso lungo e irto di ostacoli. Anche per questo è importante che dal Parlamento esca una linea chiara e non partigiana.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.