Non appena scesa dalla scaletta dell’aereo che la riporta in Italia dal G20 in India (con significativa tappa in Qatar per ragioni energetiche) Giorgia Meloni si troverà a fare i conti con questioni ancora più ingarbugliate di quelle che si è lasciata alle spalle. Non che a New Delhi sia stato facile comunicare ai cinesi la volontà italiana di non rinnovare l’adesione alla Belt and Road Initiative, la cosiddetta “Via della Seta”. Tutt’altro. Il problema è che a Roma siamo ormai in piena sessione di bilancio, e la coperta è drammaticamente corta. A complicare l’opera di stesura della finanziaria (come si chiamava una volta) c’è la spada di Damocle dei rapporti non proprio idilliaci con Bruxelles. Molto dello spazio di manovra dipende da scelte europee, su cui il governo Meloni fatica a incidere come vorrebbe, anche perché la premier non fa parte delle famiglie politiche che governano l’Unione. E a pochi mesi dalle elezioni europee questo pesa.
Due passaggi della conferenza stampa che ha concluso il summit in terra indiana lo indicano chiaramente. Il primo, sulla vicenda della nomina del nuovo presidente della Banca europea per gli investimenti (Bei). Meloni ha denunciato che procedere con logiche di partito sarebbe grave. Il che significa che la candidatura dell’ex ministro draghiamo Daniele Franco, nonostante un curriculum di prim’ordine, è destin ata a non passare. Seconda spia di insofferenza, sull’operazione ITA-Lufthansa, dove l’accusa a Bruxelles è di bloccare una soluzione che la Ue ha ripetutamente sollecitato al nostro Paese. E qui nel mirino c’è il commissario europeo Gentiloni, cui Meloni si è rivolta direttamente, chiedendo una risposta.
L’attacco all’ex premier di centrosinistra conferma il pressing in cui si sono prodotti anche i vicepremier Tajani e Salvini: ma Gentiloni è in qualche modo solo il capro espiatorio di un rapporto con la Ue in visibile peggioramento. Pesano le difficoltà in altre due trattative, la revisione del Pnrr e quella delle regole del Patto di Stabilità, destinato a tornare in vigore a gennaio con tutta la sua rigidità se non si troverà un’intesa per un addolcimento. Nessuno a Bruxelles, in un clima di accesa campagna elettorale, sembra disposto a fare favori al governo italiano di centrodestra. E questo rende la stesura della manovra ancora più difficile di quanto non sia di suo, per via delle condizioni di bilancio.
In cassa sembra ci sia una decina di miliardi di euro, mentre le misure reclamate dai partiti di maggioranza costerebbero tre o quattro volte tanto. Nelle riunioni di inizio settembre Meloni è stata chiara: bisognerà concentrare le risorse su pochi interventi mirati e politicamente qualificanti, dal rendere strutturale il taglio del cuneo fiscale, alle pensioni, alla sanità e alle misure per la famiglia. Ai ministri lei e il titolare dell’Economia Giorgetti (nel ruolo del “poliziotto cattivo”) hanno chiesto un piano di risparmi consistente, con una precisazione: rispetto al passato non si procederà con tagli lineari, una medesima percentuale per tutti i ministeri. Quindi anche spostamenti di risorse da misure consolidate, ma lontane dal programma del centrodestra, a provvedimenti più in linea.
Agli alleati che scalpitano è stato recapitato un avvertimento: niente fughe in avanti, niente annunci sui giornali di misure a effetto. Sarà una manovra complessa, e non ci si può aspettare che vi sia spazio a interventi eclatanti, con l’obiettivo di prendere un voto in più alle europee. Niente 80 euro alla Renzi, per capirci. Altro caveat: evitare l’assalto alla diligenza dell’ultimo minuto in Parlamento. Una infinità di paletti, quindi, che non mettono però Palazzo Chigi del tutto al riparo dagli imprevisti.
Davanti al Governo si prospettano mesi turbolenti, i mesi delle scelte, potendo contare quasi solo sulla forza della maggioranza, senza troppi aiuti esterni, dall’Europa in particolare. Se il tasso di litigiosità dovesse tracimare sarebbe una sconfitta, dopo un solo anno alla giuda del Paese. A quel punto scaricare su Gentiloni tutte le colpe non basterà.
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