Ieri la Banca centrale europea ha alzato (per la decima volta consecutiva) i tassi di interesse, portando quello sulle operazioni di rifinanziamento principali al 4,5%, ai massimi di sempre. La decisione è stata presa, come ha spiegato la Presidente Christine Lagarde, a maggioranza e non all’unanimità. “Il Consiglio direttivo – si legge nel comunicato dell’Eurotower – ritiene che i tassi di interesse di riferimento della Bce abbiano raggiunto livelli che, mantenuti per un periodo sufficientemente lungo, forniranno un contributo sostanziale a un ritorno tempestivo dell’inflazione all’obiettivo” del 2%. Intanto, “gli esperti della Bce hanno rivisto significativamente al ribasso le proiezioni per la crescita economica, che si porterebbe nell’area dell’euro allo 0,7% nel 2023, all’1,0% nel 2024 e all’1,5% nel 2025”. Un taglio delle stime che arriva dopo quello operato dalla Commissione europea nelle previsioni economiche diffuse lunedì. Abbiamo fatto il punto con Massimo D’Antoni, docente di scienza delle finanze all’Università di Siena.
Partiamo dalla decisione Bce: ha aumentato nuovamente i tassi mentre l’economia dell’Eurozona è in netto rallentamento: a Francoforte non si sta sottovalutando la situazione?
Lagarde ha parlato di maggioranza solida dietro la decisione, ma ha anche usato un linguaggio sfumato per descrivere l’indirizzo della Bce per il prossimo futuro. Se da un lato ha chiarito che i tassi potrebbero crescere ancora, dall’altro ha accennato a una possibile pausa e ha ribadito come l’azione di contrasto all’inflazione seguirà un approccio “dipendente dei dati”. Sappiamo che all’interno del Consiglio della Bce sono presenti diverse posizioni, dunque l’indirizzo che emerge a maggioranza è necessariamente un compromesso.
Da cosa dipendono le divergenze all’interno del Consiglio direttivo?
Le divergenze sono dovute a diversità nelle impostazioni di politica economica, ma rispondono anche alle differenti sensibilità dei diversi Paesi. In Italia siamo tradizionalmente più attenti ai possibili riflessi negativi di una politica monetaria restrittiva sull’attività economica e diamo forse meno importanza al controllo dell’inflazione. Inoltre, c’è il fatto che, con il nostro debito pubblico, per noi un aumento dei tassi si traduce quasi meccanicamente in un aumento della spesa pubblica. Tendiamo dunque a schierarci con le cosiddette colombe. Sappiamo che non tutti in Europa condividono questo orientamento.
Cosa cambia per l’economia pubblica e privata italiana dopo il nuovo aumento dei tassi?
Un aumento dello 0,25% di per sé non cambia le cose in modo significativo. Ci dice semmai che per un’inversione di tendenza nell’inflazione e nella politica monetaria dobbiamo attendere. Bisogna, per così dire, stringere ancora i denti.
Intanto non è chiaro come verrà riformata la governance economica dell’Ue: un tema che non è stato trattato da Ursula von der Leyen nel Discorso sullo Stato dell’Unione di mercoledì. Un segnale delle difficoltà e delle divisioni che ci sono sul tema?
Anche io mi aspettavo, accanto all’elenco dei successi e i cambiamenti realizzati, almeno un cenno alla governance fiscale e ho interpretato il suo silenzio come un segno che la discussione su questo tema è ancora aperta in seno alla Commissione.
Le previsioni economiche della Commissione europea diffuse lunedì segnalano un rallentamento che si estenderà anche nel 2024, anno in cui dovrebbe essere entrato in vigore un Patto di stabilità “riformato”. Le proposte al momento sul tappeto consentono di superare le difficoltà di Ue, Eurozona e Italia?
La Presidente von der Leyen ha rivendicato quanto realizzato a livello di Unione in questi anni con i programmi messi in campo per affrontare prima la crisi della pandemia e ora le sfide poste dalla transizione digitale e “green”. Come notate giustamente, il rallentamento segnala che il continente fatica a riprendersi. Il rimescolamento e la riconfigurazione dei rapporti internazionali rappresentano uno shock rispetto al quale le economie europee devono ancora aggiustarsi. Anni fa, di fronte alla crisi dei debiti sovrani e alle asimmetrie tra Sud e Nord Europa, molti di noi economisti mettevano in guarda sul fatto che il modello tedesco, di crescita trainata dall’export, lungi dall’essere un esempio da generalizzare per l’Europa nel suo insieme, rappresentava un elemento di fragilità. Le politiche di austerità hanno depresso la domanda interna, l’idea era che si dovesse guadagnare competitività affidandosi alla domanda estera. L’attuale fase di ridimensionamento degli scambi internazionali ci sta chiedendo il conto anche di quelle scelte. Le azioni promosse anche a livello europeo certamente segnalano un cambiamento di approccio, ma che non siano sufficienti lo ha affermato di recente anche una voce non sospetta di scarso afflato europeista come l’ex Presidente Draghi.
Draghi ha parlato anche della riforma del Patto di stabilità. Cosa ne pensa della sua proposta?
Dell’intervento di Draghi sull’Economist mi ha colpito innanzitutto il richiamo a non scivolare passivamente nel ritorno alle vecchie regole. Se ha ritenuto necessario scongiurare un’ipotesi che fino a poco tempo fa sembrava potersi escludere, significa che probabilmente la situazione ancora è tutt’altro che definita, un sospetto che trova conferma in quanto dicevamo poc’anzi sul silenzio della Presidente von der Leyen. Se così stanno le cose, l’avvicinarsi della scadenza non rafforza di certo chi quelle regole vorrebbe riformarle, visto che l’assenza di un accordo gioca a favore dei “rigoristi”. Nel merito, non mi è chiaro tuttavia che cosa proponga Draghi. Ha parlato di necessità di rafforzare il bilancio comune, aumentare la sovranità condivisa a livello europeo e rafforzare la capacità di formulare politiche di investimento a livello europeo, ma non mi pare su questo punto siano all’ordine del giorno cambiamenti sostanziali. Non sono neanche auspici nuovi, le difficoltà di far funzionare un’unione monetaria senza unione fiscale sono note dall’inizio.
Il rallentamento dell’economia rende più complicata la messa a punto della Nadef e della Legge di bilancio per il Governo italiano. Secondo lei, ci sarà possibilità di aumentare il deficit/Pil rispetto a quello concordato con Bruxelles oppure bisognerà fare delle scelte sugli interventi da inserire in manovra?
Credo che il Governo abbia già esplorato tutte le possibilità per ottenere spazi di bilancio. Ricordiamo che in primavera l’indicazione era quella di formulare il programma di stabilità in modo che fosse compatibile sia con le vecchie che con le nuove regole. Certo, qualche spazio aggiuntivo potrebbe essere guadagnato se fossero accettate le proposte di scorporare altre spese di investimento oltre a quelle previste. Per il resto siamo nella consueta situazione della coperta corta.
Su quali voci bisognerebbe a suo avviso puntare nella manovra?
Non esiste una risposta “tecnica” a questa domanda. Per rispondere bisogna entrare nel campo delle scelte politiche in senso stretto. Stiamo parlando di un Governo di destra, o centro destra che dir si voglia. Nello specifico, non condivido la proposta di riforma fiscale, nella quale non vedo una visione coerente e che avrà un costo in termini di minori entrate. A fronte di questo, sul lato della spesa abbiamo già assistito a una riduzione degli ammortizzatori sociali, nel momento in cui il Reddito di cittadinanza si è tradotto in una riduzione del sostegno alle famiglie in difficoltà, e conosciamo tutti la situazione di grave sofferenza in cui versa la sanità pubblica, sulla quale il Governo non mi sembra intenda investire risorse. Purtroppo, il segno dell’azione di politica economica è in direzione di una riduzione del welfare, mentre si aumentano le spese militari. Ovviamente rispetto il fatto che questo Governo ha ottenuto il voto degli elettori e risponde in primo luogo a chi l’ha votato, ma non posso fare a meno di dispiacermi delle scelte che vedo.
(Lorenzo Torrisi)
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