La Bce, a differenza che nel 2012, non può risolvere i problemi dell’Unione europea con una politica monetaria diversa, smettendo di alzare i tassi e invertendo la marcia. La Banca centrale europea potrebbe abbassare i tassi, ma si troverebbe con una valuta indebolita, e quindi con più inflazione, e con un deflusso di capitali.
Sono due conseguenze indesiderabili in uno scenario in cui si compete per le materie prime in un mondo diventato complicato e in cui l’Europa si avvia verso una rivoluzione energetica che richiede migliaia di miliardi di euro. Se la Bce optasse per una politica monetaria più espansiva si avvierebbe verso un indebolimento dell’euro di cui non si vede la fine e che l’Europa in questo momento non vuole o non può prendere in considerazione.
Gli altri attori globali hanno maggiore flessibilità dell’Europa. Gli Stati Uniti sono seduti sulla valuta di riserva globale e all’interno dell’Occidente sono il Paese più solido; possono fare deficit, come stanno facendo ancora oggi, senza pagarne il prezzo. Possono sopportare la rivalutazione del dollaro perché l’industria europea è fuorigioco e quella americana ha vantaggi di costo, pensiamo alla chimica, impossibili da colmare per l’Europa. La Cina può svalutare la sua moneta, ma è il Paese con le maggiori scorte di petrolio e ha rapporti solidi con tutti i principali produttori di petrolio e gas, dalla Russia all’Arabia Saudita, controlla le terre rare e le catene di fornitura dei pannelli solari e delle batterie elettriche e può sempre contare sul carbone domestico.
L’Europa è in un angolo, ma non vuole arrendersi all’idea di rischiare la sua valuta e di intraprendere un percorso che la porterebbe velocemente ad assumere molte caratteristiche dei Paesi in via di sviluppo. Questa resistenza, nelle attuali condizioni, non può durare a lungo. L’Europa, come ha scritto Draghi sull’Economist, ha perso l’energia russa e le esportazioni cinesi; il mondo è cambiato e l’Europa non ha potuto e non ha voluto evitarlo. Se l’Europa non trova un modo di salvare la sua industria sostituendo i fattori che sono venuti meno in tempi brevi quello che l’aspetta è uno scenario molto complesso. I tentativi di imporre dazi, o con le “carbon tax” sulle importazioni da Paesi non green, sostanzialmente tutti, oppure scoprendo, improvvisamente, gli aiuti di stato cinesi la spingono verso un isolamento commerciale che è la fine violenta del modello su cui è stata fondata la sua prosperità negli ultimi decenni e che condanna la sua economia a una stagflazione irrisolvibile.
L’Europa si sente ancora ricca, non è venuta veramente a patti con quello che è successo negli ultimi due anni; non sembra aver compreso quanto profonda sia la sconfitta incassata. Si sente ancora talmente ricca da impegnarsi in una transizione energetica, con costi da brividi, che nessuno dei suoi competitor farà mai; sicuramente non nelle proporzioni europee. La rinascita industriale americana avviene, principalmente, grazie al gas domestico e quella indiana grazie a quello russo. Non ha capito che, nella competizione per le materie prime, serve avere una politica estera molto più decisa e molto meno ideologica.
La politica della Bce cerca di mantenere l’Europa tra le economie “ricche” in attesa che vengano risolti i problemi della competitività della sua industria. Questa è una sfida che oggi si può vincere trovando soluzioni in settimane e mesi, non in anni, e alla condizione di abbandonare alla velocità della luce le ideologie che l’Europa dava per scontato di potersi permettere con la rivoluzione green e con le preclusioni in politica estera.
La Bce potrebbe tagliare, ma i problemi strutturali rimarrebbero.
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